Armenia: turbolenze regionali e fermenti politici (Treccani 26.05.21)
A circa sei mesi dalla disfatta militare consumatasi tra le montagne del Karabakh nel conflitto con l’Azerbaigian, il 23 ed il 24 aprile scorsi si sono svolte in Armenia le commemorazioni del Metz Yerghen, il genocidio perpetrato contro gli Armeni nel 1915-16, in un Impero ottomano prossimo allo sgretolamento. Centinaia di migliaia di persone hanno partecipato alle cerimonie svoltesi nella capitale Erevan, nel corso delle quali l’opposizione non ha mancato di tuonare contro il primo ministro Nikol Pashinyan, accusandolo di essere un traditore.
In Armenia, la sconfitta nella guerra dei 44 giorni dello scorso autunno ha esasperato equilibri politici e sociali già tesi: ad essere contestato da larghi settori della società è proprio il primo ministro Nikol Pashinyan, considerato promotore di una politica debole nei confronti della Turchia, della recente sconfitta militare con l’Azerbaigian e dei problemi economici del Paese. Il bilancio approssimativo delle sei settimane di combattimenti è di almeno 5.000 morti, a cui si sommano migliaia di feriti, invalidi e almeno 100.000 rifugiati che hanno abbandonato le proprie case. Secondo altre stime le vittime di combattimenti dello scorso autunno potrebbero essere addirittura 10.000.
L’intervento russo, avvenuto con il dislocamento di una forza d’interposizione di circa 2.000 uomini nei territori contesi tra Armenia ed Azerbaigian ha scongiurato per Erevan una sconfitta ben peggiore, rinnovando il ruolo di Mosca nel Caucaso meridionale. Nelle settimane che hanno seguito il cessate il fuoco mediato da Mosca, decine di migliaia di manifestati hanno protestato per le strade di Erevan pretendendo le dimissioni del primo ministro, arrivate soltanto a distanza di mesi.
Il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov si è recato in visita in Armenia il 5 ed il 6 maggio, con un tempismo tutt’altro che casuale: a pochi giorni dal 24 aprile, data in cui gli Armeni commemorano il genocidio del 1915-16, a ridosso del 9 maggio, giorno in cui in Russia si celebra ‒ come nella tradizione sovietica – la vittoria sul nazifascismo avvenuta nel 1945, e a poche settimane dalle elezioni politiche previste a giugno.
Nella cornice della visita, i ministri degli Esteri russo e armeno hanno reso omaggio alle vittime del genocidio ed ai caduti della Grande guerra patriottica – definizione con cui in Russia si ricorda la Seconda guerra mondiale ‒ visitando i due memoriali presenti nella capitale armena Erevan.
Un fatto certamente simbolico, ma nient’affatto formale: tanto meno a pochi giorni dall’annuncio con cui il presidente statunitense Joe Biden ha ufficializzato il riconoscimento statunitense del genocidio armeno: una scelta che si inserisce nel quadro delle forti tensioni tra Mosca e Washington emerse nelle ultime settimane. Benché larghi settori della società armena abbiano accolto questa notizia senza particolari entusiasmi, la mossa di Washington vorrebbe evidentemente essere d’aiuto al primo ministro Nikol Pashinyan in vista dell’imminente competizione elettorale.
Nonostante ciò, una nuova affermazione elettorale di Nikol Pashinyan appare piuttosto remota.
Oltreoceano la volontà di riconoscere ufficialmente il genocidio armeno era già emersa due anni fa con il voto del Congresso statunitense, orientato in modo significativo dalle pressioni della comunità armena degli Stati Uniti: il tempismo scelto dalla Casa Bianca per ufficializzare la decisione si spiega con l’intento statunitense di avvicinare alla propria orbita l’Armenia, a dispetto del suo rapporto strategico con Mosca.
Il cordone ombelicale con la Federazione Russa è infatti uno degli elementi che, nell’ambito dell’Unione euroasiatica, permette alla precaria economia armena di reggersi. A questo si aggiunge il ruolo che Mosca svolge nel fornire assistenza militare all’Armenia e nel presidiarne le delicate frontiere terrestri, oltre alla presenza militare di Mosca in territorio armeno (base di Gyumri e aeroporto militare di Erebuni).
Molti i temi al centro dei colloqui tra Sergej Lavrov, l’omologo armeno Ara Aivazian ed il primo ministro Nikol Pashinyan, come l’implementazione dell’accordo sul cessate il fuoco nei territori contesi del Nagorno-Karabakh, i progetti infrastrutturali di collegamento ferroviario tra Armenia e Federazione Russa, gli investimenti russi in Armenia, le attività di sostegno umanitario.
Rimarcando l’importanza del partenariato strategico tra Mosca ed Erevan, Sergej Lavrov ha auspicato che «armeni ed azeri possano riuscire a convivere pacificamente, come è stato a lungo possibile nel passato». Tuttavia, il ruolo di Ankara e Baku continua ad essere percepito come una minaccia da larghi settori della società armena, nel solco della memoria del genocidio, della conflittualità emersa con l’Azerbaigian durante e dopo il collasso sovietico e del panturchismo promosso da alcune forze politiche turche: una conflittualità che ha esasperato le identità nazionali distinte, alimentando le turbolenze del Caucaso.
Una tendenza, quella all’esasperazione identitaria, che compromette le possibilità di un equilibrio pacifico e duraturo per la regione, favorendo i tentativi di destabilizzazione e facendone apparire il futuro prossimo quantomai incerto.