Armenia tra l’incudine e il martello (Lanuova Europa 28.10.22)
Messo in ombra dalla vicenda ucraina, lo scontro armato tra Azerbaijan e Armenia è gravido di inquietanti conseguenze e sembra imporre ancora una volta la «ragione» dei regimi totalitari come norma nei rapporti internazionali. Il contributo di uno specialista di «Balcani e Caucaso». Intervista di M. Dell’Asta.
Può ripercorrere in breve i motivi di fondo del contendere tra Armenia e Azerbaijan?
I motivi del conflitto sono legati a questioni di lungo ma non lunghissimo periodo, nel senso che dobbiamo risalire al ‘900, secolo che ha visto scontri, pogrom, episodi di pulizia etnica negli anni subito dopo la prima guerra mondiale, ossia gli anni della guerra civile in Russia, che hanno poi portato alla creazione dell’Unione Sovietica.
Venendo a tempi più recenti, il conflitto si è rinnovato alla fine degli anni ’80, più precisamente nel 1988, quando la popolazione armena del Nagorno-Karabach (ricordo che è la regione che in epoca sovietica godeva di autonomia all’interno dell’Azerbaijan sovietico), ha avanzato alcune rivendicazioni nel contesto del declino dell’Unione Sovietica. Si chiedeva innanzitutto l’unione con l’Armenia; inoltre, raccogliendo alcune parole chiave della perestrojka, le rivendicazioni avevano un connotato democratizzante, tra l’irredentismo e la richiesta di nuovi spazi decisionali per l’autogoverno.
Queste rivendicazioni non restano localizzate nel Nagorno-Karabach ma si diffondono tra la numerosa popolazione armena che vive sparsa nell’Azerbaijan, soprattutto a Baku, e tra la popolazione azera che vive in alcune parti dell’Armenia. Comincia una serie di episodi di violenza, di cui è difficile identificare ogni volta la causa scatenante; incidenti che poi vengono gonfiati e usati per estendere lo scontro e l’ostilità. Così è per i pogrom anti-armeni di Baku, e la successiva repressione sovietica. A quel punto scoppia la guerra vera e propria, che dura dal 1992 al 1994, dove si vedono da una parte il desiderio degli azeri di affermare il proprio controllo sulla regione, e dall’altra una resistenza locale che si consolida e sorprendentemente porta l’Armenia ad avere la meglio sull’Azerbaijan.
In Azerbaijan in quel momento ci sono degli scontri tra le élite militari e politiche che mettono il paese in difficoltà. L’Armenia dunque esce vincitrice e occupa non solo il Nagorno-Karabach, ma anche altre zone limitrofe abitate da azeri che non rientravano nell’autonomia sovietica. Segue la fuga della popolazione azera dalla zona e anche dal Karabach: sono circa mezzo milione di profughi che si rifugiano in Azerbaijan. Del resto sono centinaia di migliaia gli armeni che in quegli stessi anni scappano dall’Azerbaijan.
È legittimo dire che la conquista del Karabach è stata resa necessaria dalle violenze che stava subendo la popolazione armena? Se non sbaglio, in seguito sono stati fatti i passi legali per arrivare al riconoscimento internazionale dell’autonomia del Karabach come enclave armena, ma poi il processo si è interrotto…
Lei mi chiede se era evitabile il conflitto… All’epoca, i conflitti locali erano scoppiati a causa del vuoto di potere che si era venuto a creare per il crollo dell’Unione Sovietica, che non si interponeva più tra le parti. Che le forze locali armene abbiano sentito la necessità di intervenire militarmente per difendersi è evidente; difficile dire se non avevano alternative, forse no. Certamente in quegli anni si sono registrati episodi di violenza anche verso la popolazione azera, costretta a fuggire; è necessario dirlo, perché quando scoppia un conflitto neanche la vittima è legittimata a usare una violenza eccessiva sulla popolazione civile, tanto da farla scappare.
E qui si passa al quesito più generale, se cioè appena fermata la violenza, oppure prima di arrivare allo scoppio della guerra, ci fosse spazio per una mediazione, per un accordo condiviso che prevedesse una forma estesa di autogoverno del Karabach, o addirittura una forma di indipendenza.
Qui si entra nei dettagli dei negoziati dell’epoca: sono stati proposti diversi modelli di autonomia, ma c’era molta reticenza da parte degli attori internazionali ad acconsentire alle richieste di indipendenza piena da parte del Karabach, perché a quell’epoca la fine dell’Unione Sovietica era vicina, e si temeva che concedere l’indipendenza a piccoli territori potesse avere ripercussioni anche altrove.
I negoziati, all’epoca, non hanno più lasciato spazio per ottenere la formalizzazione estesa dell’autonomia, e non hanno trovato le circostanze per realizzarsi soprattutto perché non c’erano tutele sufficienti per la parte armena. Infatti, una volta che la parte armena era riuscita a vincere il conflitto, e a prendere il controllo su un’area molto ampia su cui non aveva mai avuto alcuna rivendicazione, non è riuscita a trovare una soluzione di compromesso: avrebbe potuto lasciare le zone popolate da azeri, ma non è successo perché l’Armenia riteneva che se avesse ceduto qualcosa, non avrebbe poi avuto gli strumenti per difendere quello che le era rimasto. Cosa che vediamo adesso.
Allora perché si è rinnovato l’attacco azero?
Per passare dall’excursus storico a fatti più recenti, dobbiamo considerare la guerra di due anni fa, iniziata con l’attacco del 27 settembre 2020, e gli scontri del settembre di quest’anno. Il motivo della guerra di due anni fa è la crescente disparità di forze tra le parti, secondo una logica militare ed economica incontrovertibile.
Se negli anni ’90 l’Armenia era riuscita a vincere la guerra, non possiamo dimenticare che l’Azerbaijan ha più del triplo della popolazione dell’Armenia e che, non per particolari meriti ma grazie agli idrocarburi che ha nel sottosuolo, può permettersi spese militari molto ingenti. Quindi, nella misura in cui la disparità tra le parti si faceva sempre più evidente dal punto di vista economico e soprattutto militare, non c’era spazio per fare passi avanti nel percorso negoziale. Si tratta di una dinamica complessa, ma uno dei motivi principali per cui la parte armena non voleva accettare compromessi stava nel fatto che non c’era garanzia che la parte azera li avrebbe rispettati appieno. Quindi è comprensibile la reticenza armena a cedere, tuttavia la sua era una posizione oggettivamente insostenibile, come si è visto nel corso della guerra di questi anni.
Per arrivare al presente, la guerra del 2020 si è conclusa con una netta sconfitta della parte armena, che però ha potuto mantenere il controllo almeno su una parte significativa di quella che era la regione autonoma del Nagorno-Karabach. Nell’accordo di «cessate il fuoco» (che non era ancora un accordo di pace) si parlava tra l’altro della presenza di forze di pace russe che facilitassero la presenza armena locale, però era innanzitutto una presenza a tempo, da rinnovare dopo 5 anni, e soprattutto in quell’accordo non si faceva riferimento a nessuna forma di autogoverno della popolazione del Karabach.
Questo è stato l’oggetto del contendere in questi due anni di negoziati che, bisogna dire, sono andati avanti con una decisione da ambo le parti che non si vedeva da molto tempo. Le parti hanno incominciato a interagire direttamente, senza mediatori, perché l’Unione Europea si presentava non come mediatrice ma come ospite. La possibilità di un accordo di pace si faceva apparentemente più vicina, tanto che un mese fa il governo azero ha chiesto alle parti di stendere una bozza di documento. E qui si arriva alle due questioni che nell’accordo non trovano soluzione: la prima, che appare tecnica ma che potenzialmente ha grandi conseguenze, è la questione del collegamento diretto tra l’Azerbaigian e l’enclave azera del Nachičevan in territorio armeno.
Nell’accordo di «cessate il fuoco» c’era solo un accenno generico a un passaggio supervisionato dalla parte russa, mentre adesso gli azeri chiedono attivamente un corridoio sul quale la parte armena non avrebbe nessuna sovranità. La seconda, che è la questione principale, riguarda la popolazione armena del Karabach. Da parte armena vi è una presa di coscienza del fatto che nel contesto attuale, visti i rapporti di forza, non è più plausibile sperare in una piena indipendenza per il Karabach, e quindi gli armeni hanno adeguato la propria richiesta al fatto che vi siano delle tutele effettive per i diritti della popolazione armena, che è il minimo che si può richiedere, anche perché è obbligo di qualsiasi Stato fornirle, secondo tutti gli accordi internazionali in vigore.
Ma da parte dell’Azerbaijan non c’è alcuna disponibilità: insiste che ora il Karabach è una sua questione interna, per cui non vuole includere nell’accordo di pace alcun riferimento alla popolazione armena di quell’area. Onestamente è una posizione alquanto bizzarra, perché si vuole siglare un accordo di pace che mette fine a un conflitto senza affrontare la questione centrale che ha originato il conflitto stesso.
E l’attacco recente come si inserisce in questa situazione?
L’attacco su più vasta scala che è avvenuto lo scorso settembre rappresenta una forma di pressione, per ricordare alla parte armena che l’Azerbaijan non è pronto a compromessi, ma ha tutte le intenzioni di imporre la pace come forza vincitrice. E quindi chiede che la parte armena accetti sostanzialmente senza precondizioni la sua versione di pace. Pertanto l’attacco che abbiamo visto vuol ricordare la superiorità militare azera e la fragilità strutturale armena, che è sempre più evidente in questa fase in cui il suo partner internazionale di riferimento, cioè la Russia, che in teoria sarebbe il garante della sicurezza dell’Armenia, è occupata altrove.
Da parte azera in questo modo si suggerisce altresì che quello che sembra lo scenario peggiore adesso, cioè la perdita del Karabach, potrebbe effettivamente non essere lo scenario peggiore. Da questo punto di vista si è riproposta una retorica che si è sentita più volte in questi ultimi anni, cioè la ripresa della narrazione azera per cui la regione del Syunik sarebbe storicamente azera, che la stessa Erevan faceva parte del khanato di Erevan e che tutta l’Armenia sarebbe parte storica dell’Azerbaijan. Una retorica pretestuosa.
E dietro a questo ci sarebbe anche la Turchia?
La Turchia è sicuramente parte determinante nel rapporto di forze regionale, per cui il sostegno esplicito di questo paese è stato determinante nel permettere l’inizio della guerra nel 2020, e nel rendere la minaccia militare più realistica oggi. Davanti alle posizioni dell’Azerbaijan, i turchi non hanno assunto posizioni moderate, ma si sono schierati dalla parte degli azeri.
Se da un lato, in questo momento, si sta concretizzando la ripresa dei rapporti diretti tra Armenia e Turchia, con l’opzione di riaprire i confini tra i due paesi, dall’altro il sostegno militare e politico all’Azerbaijan da parte della Turchia rimane netto. Per cui, nel caso di un attacco su più ampia scala dell’Azerbaijan, anche senza immaginare un coinvolgimento diretto della Turchia, è prevedibile un esplicito sostegno agli azeri.
Riassumendo, l’Armenia è un partner della Russia, che è potente ma assente; mentre l’Azerbaijan ha un partner forte e presente.
Quindi, da quanto lei dice, sembra che sia un rischio reale quello che vanno ripetendo gli armeni, e cioè che la loro è una difesa radicale perché ne va della loro sopravvivenza come paese…
C’è sempre da sperare che la minaccia non sia totale per l’esistenza dell’Armenia in quanto tale, ma per la popolazione armena del Karabach la minaccia è assolutamente concreta, e la probabilità che tra qualche anno rischi di dover abbandonare in toto le proprie case è del tutto realistica; né si può escludere la minaccia almeno per alcune regioni dell’Armenia. Quindi l’Armenia si trova in una situazione molto fragile, è uno Stato piccolo che ha strutturalmente bisogno di alleati; l’alleato su cui storicamente ha sempre fatto affidamento adesso è poco presente. Di qui nasce un dibattito:
è meglio avere amici inaffidabili ma che al momento buono hanno un certo peso, o amici distanti che realisticamente non potrebbero essere più presenti?
Quando è scoppiata la guerra nel 2020 la Russia, pur con tutti i limiti, è stata l’unico paese effettivamente disponibile a facilitare l’interruzione del conflitto e a mettere le sue truppe sul terreno. Anche se si tratta di numeri piccoli, la Russia ha avuto un misto di influenza politica e militare che ha permesso di arrivare al «cessate il fuoco». Da parte occidentale purtroppo non si vedeva traccia di intervento.
Perciò il rimprovero che gli armeni fanno all’Occidente, all’Europa di essere assenti è reale?
C’è stato un dibattito su cosa era giusto rimproverare all’Unione Europea durante la guerra del 2020. Io stesso avevo criticato la parte europea perché sembrava si limitasse troppo a una critica generica senza esplicitare in modo più secco la propria posizione. E qui, penso, si paghi in parte un’incongruenza storica dell’Europa e di tanti partner in questi anni, che riassumo così: l’insistenza sull’illegalità delle autorità del Nagorno-Karabach tra il 1994 e il 2020.
Penso che in tutti quegli anni da parte dell’Europa e dei governi occidentali non si sia fatto abbastanza per distinguere due questioni separate: da una parte l’effettiva necessità di un’autonomia forte, di un autogoverno da definire per difendere la popolazione armena ragionevolmente entro i confini di quella che era stata l’autonomia sovietica; dall’altra la situazione nei territori adiacenti, su cui il governo armeno non aveva diritti visto che lì gli armeni non abitavano. Se la comunità internazionale avesse sempre fatto un distinguo chiaro tra le due cose; se avesse sostenuto appieno l’autonomia armena nei territori storici, e se avesse parallelamente insistito perché gli sfollati azeri potessero tornare nelle aree in cui abitavano, avremmo oggi una situazione più coerente: si potrebbe insistere sull’autonomia del Karabach, e al tempo stesso, pur nel disastro della guerra, rallegrarsi perché centinaia di migliaia di persone hanno potuto fare ritorno alle loro case.
Limitarsi invece a un generico richiamo alla pace senza distinguere le due cose è tra gli elementi che hanno reso insostenibile la posizione dell’Europa occidentale in questi anni, e che rende difficile «ammodernare» la propria posizione oggi. Bisogna capire che è insostenibile che l’Armenia continui a detenere la zona attorno al Karabach (che è più vasta del Karabach stesso), sia per la comunità internazionale che per la parte armena.
La soluzione di compromesso doveva essere spinta in modo più esplicito in passato, adesso ci si trova bloccati di fronte all’Azerbaijan che parla del Karabach come di una propria questione interna. Su questo ci vorrebbe un richiamo molto più esplicito da parte della comunità internazionale, perché sappiamo che l’Azerbaijan è un regime autoritario con tanti problemi, e nei due anni che sono passati dalla guerra del 2020 non ha mostrato la minima intenzione di voler rispettare la comunità armena, né dal punto di vista politico né da quello culturale. Finora l’Azerbaijan si è mostrato più interessato al territorio che alle esigenze della popolazione.
Uno storico russo, pur simpatizzando con la causa armena, muove dei rimproveri all’Armenia che, secondo lui, mancherebbe di realismo quando insiste sull’autonomia piena del Karabach, e soprattutto quando non vuole scendere dal carro della Russia, perché non può aspettarsi di veder difesi i propri diritti da un paese che non rispetta nessun diritto. Cosa ne pensa?
Riguardo alle responsabilità dell’Armenia in tutto questo, penso che ci sia una considerazione di fondo da tenere presente, e cioè che in teoria a grande potere dovrebbe corrispondere grande responsabilità. Nella situazione che si è venuta a creare in questi ultimi anni, l’Azerbaijan è l’attore più forte, che dovrebbe saper gestire con responsabilità la propria superiorità politica ed economica nella regione. Invece di riaprire una fase militare del conflitto dagli esiti incerti, nel contesto attuale l’Azerbaijan potrebbe ottenere quasi tutto quello che vuole in modo assolutamente pacifico, promuovendo una serie di dinamiche positive per sé stesso e per la regione.
Gli azeri potrebbero tranquillamente cedere qualcosa, perché sanno che se volessero tornare sui propri passi, o se l’altra parte abusasse di queste concessioni, avrebbero la forza materiale per riaffermare la loro supremazia. Da questo punto di vista l’Azerbaijan dovrebbe proporre delle soluzioni responsabili, accettabili, e fare quello che l’Armenia storicamente non ha potuto fare.
L’Armenia avrebbe potuto cedere a un paese che desse qualche minima garanzia alla popolazione armena locale. Ma questa minima garanzia purtroppo non si è vista, se non in qualche congresso internazionale, o in qualche parola gettata lì da Baku e promossa all’estero. Quindi è legittimo dire che le aspettative dell’Armenia erano implausibili, e che era anche eticamente indifendibile l’allargamento che il governo di Stepanakert ha fatto.
Tra l’altro, questo errore da parte armena ha effettivamente ridotto ulteriormente gli spazi negoziali; negare che quelle aree fossero oggetto di negoziato è stato un errore imperdonabile in un contesto dove in nessun modo quello stato di cose poteva essere mantenuto e difeso. Le responsabilità che ci sono da parte armena secondo me riguardano prevalentemente il fatto di aver messo sullo stesso piano i territori adiacenti e quelle che sono le parti storicamente armene.
Rispetto al ruolo della Russia, io credo che quello che è successo in queste ultime settimane mostri l’inutilità vuota di questa alleanza militare tra Armenia e Russia, che include anche il Kazachstan, la Bielorussia, con cui ci sono accordi che non hanno alcun impatto. Allo stesso tempo l’influenza della Russia è davvero enorme sull’Armenia, non solo per la presenza militare (sotto forma di basi militari o di aiuti da parte delle forze russe nel controllo dei confini esterni dell’Armenia verso l’Iran e verso la Turchia), ma anche per la presenza russa nell’economia locale armena. Attori privati o semi-privati russi hanno il controllo su tutte le principali infrastrutture locali dell’Armenia, dalla distribuzione del gas e dell’elettricità, alle ferrovie, alle compagnie telefoniche principali che sono tutte di proprietà russa, così come tanti altri settori dell’economia. Quindi immaginare oggi un allontanamento dalla Russia per affidarsi all’Europa o agli Stati Uniti è davvero difficile. Anche se in queste settimane è emerso in modo più spiccato il ruolo dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti con Blinken, che hanno fatto pressione sull’Azerbaijan e facilitato incontri per arrivare a soluzioni di compromesso, è impensabile che il partner principale dell’Armenia non sia la Russia.
Quindi, non si può rimproverare all’Armenia di affidarsi alla Russia, finché realisticamente non c’è un’alternativa, e oggi realisticamente questa alternativa non c’è, perché anche eventuali accordi che facilitassero il commercio con l’Unione Europea non sarebbero economicamente risolutivi, dato che la Russia continua a essere il partner commerciale principale dell’Armenia per esportazioni e importazioni.
Si parla di stravolgere un sistema politico-economico, cosa impensabile nel breve periodo, e per di più in una situazione di fragilità come quella attuale. Anzi, da parte dell’Occidente dovrebbe esserci la disponibilità, per quanto difficile nel contesto di questo conflitto che nel grande schema dei rapporti globali è secondario rispetto ad altri conflitti internazionali, a dialogare e a coinvolgere la Russia nei negoziati, nelle circostanze e nei modi in cui questo può essere utile.
È bene che Armenia e Azerbaijan si possano parlare, ospitati a Bruxelles, però quando si pensa a soluzioni per un accordo di pace definitivo, un sostegno anche esplicito da parte dell’Unione Europea e di altri attori al ruolo locale della Russia, per quanto problematico, dovrebbe esserci; ad esempio il contingente di forze di pace russe dovrebbe poter collaborare in modo più attivo con le altre organizzazioni internazionali di pace.
Qui la colpa non è solo di una parte: anche la Russia si è mostrata poco collaborativa con la presenza internazionale in loco, però parliamo di uno dei contesti internazionali dove uno spazio di dialogo maggiore potrebbe esserci, e dove semplicemente bisognerebbe evitare di trasportare le tensioni dovute a conflitti in altre regioni anche in questo specifico conflitto, dove, se ridefiniti correttamente, gli obiettivi della Russia e dell’Occidente possono in parte coincidere. Infatti, più che avere influenza in termini geopolitici in quella regione, per l’Unione Europea la cosa più importante, dovrebbe essere promuovere un contesto di pace in cui i diritti delle popolazioni locali incluse le minoranze, come la popolazione armena del Karabach, siano effettivamente tutelati. Quindi qualsiasi misura che anche col coinvolgimento della Russia faciliti questo risultato finale dovrebbe essere incoraggiata da parte dell’Unione Europea e dei partner occidentali.
Gli armeni dicono che l’Europa non è interessata perché sta comprando il petrolio dall’Azerbaijan, secondo lei è vero?
Sì, c’è del vero in questo, ed è chiaro che tra i vari elementi che hanno facilitato la posizione sempre più aggressiva dell’Azerbaijan, in questi mesi, c’è la convinzione che l’Occidente non andrà a scontrarsi con Baku perché ha bisogno del gas. E soprattutto c’è del vero nel brevissimo periodo perché l’Europa ha un problema innegabile con le forniture energetiche.
In un senso più ampio, però, è importante non sopravvalutare l’importanza del gas azero per l’Europa. Si tratta di volumi tutto sommato ristretti, e quei volumi promessi non sono realizzabili nel breve periodo, quindi il fatto che l’Azerbaijan sia in grado di fornire qualche piccolo punto percentuale delle forniture europee non può essere sufficiente per soprassedere ai valori che l’Unione Europea esprime, e che dovrebbe cercare di esprimere in modo forse più coerente almeno in una regione vicina come il Caucaso, con ambizioni di integrazione europea. Quindi il bisogno europeo di gas non dovrebbe essere sufficiente, tanto più che l’Unione Europea non dovrebbe porsi attivamente contro l’Azerbaigian, ma insistere su quelli che sono i suoi valori fondanti.
Noi abbiamo siglato tanti documenti che stabiliscono l’importanza di tutelare le minoranze nazionali, perciò, se il riconoscimento pieno della sovranità non si mette in dubbio, la necessità e la responsabilità degli Stati sovrani di garantire la piena tutela delle popolazioni che vivono al loro interno rimane.
Quindi il risultato auspicabile dovrebbe essere una qualche forma, ad interim in questo periodo, di pieno autogoverno per la popolazione armena della regione, finché, si spera, negli anni cambierà la retorica delle parti. Se fra qualche anno l’Azerbaijan mostrerà interesse a rispettare certi principi, a tutelare la popolazione, allora si può immaginare un cambiamento di status. Parliamo di scenari che si possono avverare, plausibili, immaginabili.
Per rispondere in breve alla sua domanda:
sì, quello degli interessi energetici è sicuramente un elemento che entra nel calcolo politico delle parti, ma da parte dell’Unione Europea non c’è modo politicamente condivisibile di abbandonare uno dei propri principi fondanti per una piccola parte delle forniture energetiche nel breve periodo, che tra l’altro nel medio periodo non saranno più necessarie.
E oggi, il cessate il fuoco regge ancora? Si vedono segni positivi nelle trattative di pace?
Il cessate il fuoco regge e nelle ultime settimane ci sono stati significativi sforzi diplomatici con l’obiettivo di raggiungere un accordo quantomeno sulla delimitazione dei confini entro la fine dell’anno. Si è raggiunto un accordo per mandare una missione civile dell’Unione Europea che per due mesi contribuisca al processo di demarcazione dei confini.
Un accordo tra Armenia e Azerbaijan sulla demarcazione dei confini nei prossimi mesi è difficile ma realistico, in particolare grazie all’impegno più esplicito di Unione Europea e USA. Si tratta di uno sviluppo positivo, anche se il contesto rimane molto delicato e può bastar poco per far deragliare il processo.
Tuttavia, per ora non ci sono passi avanti sostanziali per quanto riguarda la popolazione armena del Karabakh, la cui posizione rimane estremamente fragile. Un eventuale accordo sul reciproco riconoscimento dei confini tra Armenia e Azerbaijan che non includa misure di tutela nei confronti di questo gruppo non potrà in ogni caso essere considerato un accordo di pace.