Armenia, mistica e lieve (Yaneamagazine 26.01.24)

C’è una cappella laterale nella Chiesa di Santa Hripsime. All’interno ci sono due donne che accendono candele e poi ci sono io che cerco di scattare una foto. Non le voglio inquadrare, mi sembra sbagliato. Come per quelle popolazioni ai confini dell’Occidente che un tempo credevano che la macchina fotografica potesse rubar loro l’anima, allo stesso modo non voglio commettere il furto. Questa è una terra carica di mistero, devozione e spiritualità. Rubare qualcosa qui – anche solo metaforicamente – mi sembrerebbe un sacrilegio. 

Mi avvicino alle candele mentre le donne finiscono le orazioni. Resto sola davanti alle due vasche. Le fiammelle danzano su esili steli di cera lambiti dall’acqua, immersi nella sabbia sul fondo. Tutto è in penombra. Eppure, c’è una gran luce. Resto a fissare il calore del fuoco, il suo ondeggiare ora lento, ora furtivo. Sulla parete, quasi di fronte a me, c’è un’icona della Madonna. Alle mie spalle, sulla sinistra, le due donne s’inginocchiano, prima una e poi l’altra, così come fanno le persone nell’ambiente principale. Per come vedo le cose ora, qui non ci sono navate: esistono solo gli spazi, la luce che reclama dolcemente il suo posto accanto all’ombra e l’incenso, che dai turiboli si diffonde a zaffate. Fa caldo, molto. Ma fa molto più caldo fuori, anche restando all’ombra del gavit, il nartece delle sepolture.

Sono affascinata dai movimenti delle due donne, che sulla mia retina si sovrappongono alla danza delle candele. Si sporgono in avanti, sono velate. E con il capo coperto si avvicinano al pavimento di pietra. Una, due volte. Il resto non lo so più. So che una ragazza poco prima è stata portata fuori per il gran caldo. Uno svenimento, un mancamento dovuto alla carenza d’ossigeno, oppure all’emozione. Nello spazio principale, davanti all’altare rialzato, la gente è assiepata. Barbe, veli, orazioni, altro incenso che sprigiona dai turiboli. Non è che l’aria manchi, è che si è fatta densa di tutto, ma in particolar modo di quella devozione attiva e vissuta che da tempo non trovavo in una chiesa del nostro Occidente. 

 

Chiesa di Santa Hripsime – foto di Sandra Simonetti

 

A differenza degli altri ambienti, nella mia cappella laterale con la Madonna e il bambino, le fiammelle e l’acqua delle due vasche, c’è meno affollamento. Non so ancora se ad affascinarmi di più siano le donne con le quali sto condividendo qualche intenso minuto di questa giornata, oppure il senso generale dell’essere qui. Presente a me stessa, anche se solo parzialmente preparata di fronte a questo mistero. È un mistero antico, che trasuda dalle pareti di tufo e s’innalza con il fumo in spirali sottili. È la presenza di un misticismo di cui non so cogliere gli esatti confini. È palese, palpabile, emozionante. 

Con le donne lontane dalla macchina scatto una delle poche foto che farò in questa chiesa. Cozzerà con l’altra, dove l’obiettivo era rivolto verso l’altare e sopra il mare di teste si vedrà l’officiante circondato dai suoi assistenti. Qui, invece, la sensazione dominante sarà la stessa che sto provando ora. Un profondo raccoglimento. Un silenzioso, muto e palpitante senso di presenza. Scatto la foto e penso che sarà da quest’immagine che partirò per descrivere il viaggio, più avanti. Un viaggio che è appena iniziato, con la visita della prima di tante chiese di cui varcherò le soglie – fisiche ed immaginali – e che dentro di me già mi sembra compiuto.

Alcune esplorazioni dell’anima quando partono senti che vincono le leggi del Tempo. Non si basano sulla consequenzialità degli eventi, bensì sul loro accavallarsi in un continuum di cui troppo spesso dimentichiamo l’esistenza. Succede quando le sensazioni, i dati materici, le esperienze che colpiscono i nostri sensi e la nostra mente, portano in nuce già tutti gli elementi principali della narrazione. Ed è quello che mi sta capitando, senza che io me ne renda pienamente conto. Nella Chiesa di Santa Hripsime, a una ventina di chilometri da Yerevan e un paio da Echmiadzin, la Santa Sede dell’Armenia. 

 

Tatev – foto di Sandra Simonetti

 

Più tardi inaugurerò il mio taccuino. Sarà lo stesso, con le pagine morbide leggermente ingiallite, che mi terrà compagnia per il resto della settimana. Appunterò pensieri, farò penosi schizzi degli edifici, mi segnerò gli albori di qualche riflessione. Nella fretta, durante le spiegazioni di Bagrat, la nostra meravigliosa guida. Con la foga di chi teme di smarrire per la via qualche cosa di essenziale, di vitale importanza. Così, con i primi tratti della mia pastosa matita, quel giorno scrivo: “Chiesa di Santa Hripsime. Messa cantata, zaffate d’incenso. Dura 2 ore. Donne che pregano con il capo a terra durante l’Eucaristia. Cappella laterale dedicata alla Madonna. Raccoglimento. Candele gialle e sottili, le spengono nell’acqua quando diventano mozziconi.”

Sono le stesse candele che trovi in ogni chiesa d’Armenia. Le vendono fuori e all’interno degli edifici, a volte nei gavit quando l’architettura li ha portati a coprirsi con volte e soffitti, anch’essi di pietra. Viste da lontano, spente e in attesa di un acquirente devoto o di un compratore di fortuna, somigliano a piccole funi. Hanno il colore aranciato del giallo acceso, di quando il sole volge al tramonto. Ce ne sono di vario spessore, probabilmente anche di varie lunghezze. Ma tutte sono accomunate da uno spirito nobile, dall’eleganza che solo le creature esili recano con sé ogni volta che si ergono nella loro richiesta d’intercessione verso il cielo. 

Quando le stai per accendere ti chiedi da che parte si trovi lo stoppino, perché le due estremità sono tra loro molto simili. È buffo, come se non esistessero un modo giusto e uno sbagliato di fare le cose. Conta solo trovare la maniera di accenderle per elevare la propria luminosa preghiera. Si conficcano nella sabbia che ricopre le vasche, ampi contenitori rettangolari in metallo. Le candele accese a poco a poco si avvicinano al fondale e mentre si consumano assumono le altezze più disparate. Come una foresta di cera che al posto delle chiome si colora della sprizzante energia del fuoco. Pali fissi nella sabbia e nell’acqua, che la sabbia ricopre. Privi di un ordine costituito, senza file prestabilite o griglie da seguire. Con l’unico schema dato dal caso e dall’ispirazione del momento nel dove collocare la candela. Poi, quando si avvicinano alla fine, arriva sempre una donna, silenziosa e risoluta. Fa man bassa di più fuscelli d’oro e li raggruppa tutti, spegnendoli progressivamente nell’acqua. Non ho mai visto soffiare su una candela. Le ho sempre osservate spegnersi per mano femminile nell’unico elemento chiamato a contrastare il fuoco. 

 

Montagne armene – foto di Sandra Simonetti

 

Le ho trovate parte integrante di questo percorso in terra armena. Presenze per definizione silenziose, inclini a consumarsi di fronte all’incedere del tempo. Eppure, eternamente presenti. Specchio dei luoghi ai quali danno luce. Ho letto da qualche parte che abbiamo conosciuto la cultura armena, noi Europei, solo quando questa ha rischiato di spegnersi per sempre, di andare perduta. È successo più volte nel corso della storia e ad ognuna di queste ha evidentemente fatto da contraltare la capacità di resistere, sotto le forme più varie. Non mi riferisco qui solo alla cultura, ma proprio alle persone, alla loro capacità di restare fedeli a sé stesse, fortemente attaccate ad un’identità nonostante le distanze e i corsi-ricorsi storici auspichino il contrario. 

I luoghi di culto sono la spina dorsale di questa popolazione perennemente vittima di tentativi di sopruso. Nella religione, in una forma molto particolare di spiritualità, trovano spazio, ristoro e respiro i crismi identitari delle genti d’Armenia. Un aspetto che, oggi giorno, appartiene a ben pochi popoli e Paesi. Per quello che ho potuto vedere, sentire, apprendere, gli Armeni credono e, credendo, si ritrovano nella propria essenza. 

Un’essenza complessa, soprattutto dopo il crollo dell’Unione Sovietica e in tempi in cui le ragioni geopolitiche sono uscite dal freezer. Su chi siano gli Armeni e come essi scelgano di rispondere a questa domanda si trova molta letteratura competente. Per chi si fosse, un po’ come me, messo sulle tracce di questa lunga e avvincente storia il cui epilogo è ancora tutto da scrivere, offro umilmente qualche riferimento letterario alla fine di questo testo, che nasce dal desiderio di provare a rispondere ad un interrogativo, lo stesso che riecheggiava e al contempo trovava risposta in quella cappella laterale, nella chiesa edificata sopra le spoglie della Santa Hripsimé. Un quesito semplice ed eterno, che, come le vene d’acqua nelle terre semidesertiche, scorre profondo e ogni tanto zampilla fuori. Dov’è l’elemento femminile in questa spiritualità?

 

Noravank – foto di Sandra Simonetti

 

È una domanda alla quale non esiste una risposta univoca, poco conta all’interno di quale contesto culturale la si voglia porre. Una domanda che ci siamo un po’ persi per strada anche in Occidente e a cui negli ultimi decenni abbiamo deciso di tornare in qualche modo ad abbeverarci. La donna, la sua sacralità, il lato della Luna, che fine hanno fatto? Prima però vale la pena soffermarci sul dove: perché chiederselo proprio in Armenia, una terra così lontana, con un alfabeto tutto suo che solo lei usa e un passato così tagliente da averle amputato parti essenziali del proprio corpo?

La risposta è semplice e complessa insieme. Nelle chiese armene spesso e volentieri è la Madonna ad essere al centro. Dietro l’altare, al posto della pala con il Cristo che noi spesso troviamo in ambito cattolico. Nelle lunette sopra gli ingressi. Nelle cappelle e negli ambienti laterali. La chiesa principale dei complessi monastici – meraviglie architettoniche che all’occhio poco allenato ricordano la pacata robustezza del Romanico – è spesso dedicata alla Madre di Dio. Nel mio quaderno di viaggio ho provato ad abbozzarne i contorni e, nonostante la mia mano incerta e fuori allenamento, anche solo come schizzi a matita questi luoghi trasmettono un’anima. Una bellezza data dalle linee di altri tempi, dalla composta, raffinata semplicità. Una bellezza a volte austera, ma mai troppo severa. Una bellezza che sa di femminile.

L’Armenia storica si trovava a cavallo tra l’Anatolia e il Caucaso. Terre cariche di contaminazioni culturali, in cui il tracciato di rotte carovaniere come la Via della Seta ha lasciato splendidi caravanserragli dove ancora si sente l’eco dei mercanti incastonata nelle mura. Luoghi in cui lo spirito del posto ha presto e progressivamente incontrato le visioni di mondi lontani, prendendo in prestito da ogni viaggiatore un pezzo della sua storia e donandogli, in cambio, credenze, miti e leggende destinati a vivere per sempre. 

C’è stato un tempo in cui questo Paese, ora appena più grande della Lombardia, era molto esteso. Un’epoca in cui le sue terre lambivano i tre mari della regione: il Mediterraneo, il Nero e il Caspio. L’era in cui la Colchide, la terra magica alla quale approdarono gli Argonauti per rubare il vello d’oro, non era poi così lontana da queste lande. E se tra gli Argonauti il mito vuole che ci fosse Armeno, futuro re fondatore, dalla Colchide sarebbe arrivata Medea, grande e terribile maga. Retaggio di una cultura antecedente a quella della Grecia antica, in cui la donna avrebbe ricoperto un ruolo ben diverso nella società.

 

Cattedrale di Echmiatsin – foto di Sandra Simonetti

 

C’è chi collega l’Anatolia alla Ishtar, che altri chiamano Inanna. La dea doppia, la dea terribile, sepolta sotto le spade dell’Età del Ferro e dei culti patriarcali. Eppure, di tutta questa potenza femminile ora perduta, qui si trova ancora traccia. Logico, stiamo parlando di spiritualità pagane. E l’Armenia è riconosciuta quale primo Paese al mondo ad adottare il Cristianesimo come religione di stato, nel 301. Qualche anno prima di Costantino. 

Da quel momento in poi, per opera di San Gregorio l’Illuminatore e grazie alla conversione di Tiridade III (lo stesso re che aveva fatto uccidere Santa Hripsime) la cultura armena si lancia in un mutamento profondo. Vengono distrutti i templi pagani, con così grande dedizione e probabile ferocia che oggi se n’è salvato solo uno, quello di Garni. Storie che abbiamo conosciuto anche in Occidente: le chiese sono edificate su luoghi di culto preesistenti. Santuari incredibili, tuttora carichi di un misticismo che trascende e fa trascendere il partecipante, poggiano i piedi su sacre sorgenti e altri simboli della Dea. 

Sono passati secoli, millenni. Invasioni e stregue resistenze si sono succedute. I monasteri hanno proliferato tra le alture di questo paesaggio così cangiante. Alcuni luoghi hanno portato in grembo il seme di altre visioni, date da quell’essere terra di passaggio. Altri invece sono rimasti arroccati sulle alture, in gole e anfratti. Lontani dai venti del cambiamento, fortemente radicati nelle proprie identità cristiane precalcedoniane. E, al contempo, così carichi di quell’elemento femminile a lungo sepolto. Si percepisce leggendo le tradizioni e le feste del calendario liturgico. Si nota osservando la disposizione centrale della donna per eccellenza della Cristianità. Si avverte passeggiando tra le mura delle chiese, dove i veli sono appesi a lato o all’ingresso.

I veli, altro bellissimo elemento di questa spiritualità. Bellissimo perché indossato dalla donna entrando nei principali luoghi sacri, secondo un distinguo che non ho avuto purtroppo il tempo di cogliere. Un velo che all’uscita si può togliere, ripiegare e che ha avuto il privilegio di sancire unicamente quel momento d’intimità con l’energia spirituale. Un’energia che anche i meno inclini al misticismo sentono affiorare dal terreno. Specialmente in un’altra chiesa, quella di Geghard, dove un tempo venne ospitata e preservata la lancia con cui Longino trafisse il Cristo sulla Croce. Qui, in uno dei tanti ambienti di questo complesso di pietra, c’è una vasca con dell’acqua sacra. Sgorga dalla roccia, dal suolo. E cronologicamente appartiene a un tempo e a una visione del mondo ormai lontani. Eppure, la presenza di quest’acqua sacra anche per i pagani, ben si integra in uno dei santuari cristiani più importanti del Paese. Dove tutto sembra trovare il suo posto e parlare la stessa lingua nonostante il variare degli idiomi. Nonostante il mutare delle credenze nel corso degli anni.

 

Sevanavank – foto di Sandra Simonetti

 

Come nel complesso monastico di Sevanavank, su quella che un tempo era un’isola nel mezzo del mare d’Armenia. Perché quest’Armenia, da quando è rimasta senza litorali marittimi da lambire, si è rivolta al meraviglioso Lago Sevan. E a questo specchio lacustre è andato in sorte di svolgere la funzione di mare nelle torride estati dell’altopiano. Sull’altura svettano due costruzioni. Sono state fatte erigere da una principessa rimasta vedova troppo presto, che fece edificare un numero di chiese equivalente a quello degli anni del defunto marito. Ecco perché qui ora troviamo un luogo di culto dedicato agli Apostoli e uno alla Madonna. Dove sorgono le chiese, prima si erigevano due templi consacrati a divinità femminili: Anahit, che per alcuni è divenuta Artemide e Astghik, Afrodite. 

Attorno al promontorio, tra le bancarelle affiorano monili in argento, che risplendono di bellezza opalescente. Sono i riflessi della pietra di luna, un minerale tipico di quest’area e da sempre associato all’energia femminile. Lo trovi in anelli e bracciali con raffigurazioni di melograno, il simbolo di fertilità, sacrificio e prosperità che impreziosisce tutto in Armenia: dall’artigianato alle decorazioni delle chiese. Un simbolo che spesso si trova in compagnia di altri retaggi arcani, quali il fiore della vita, il nodo di Salomone, la stella a sei punte, l’axis mundi…

Ma il simbolo che campeggia ovunque è senz’altro la croce, con la quale il fervore cristiano ha puntellato a più riprese il suolo, testimoniando la vita che rifiorisce. È una Resurrezione talmente realistica che il Cristo è assente e la croce resta vuota, culminando in foglie alle sue quattro punte. Sono rappresentazioni bellissime, scolpite su stele di pietra chiamate khachkar, un suono dolce e potente insieme. Come dolce è la potente roccia dopo essere passata sotto la bravura degli artisti locali. È a tal punto ricoperta di simboli e intrecci armoniosi che nella fattura abbandona il suo stato litico per assumere le sembianze di un merletto fiorito. Una meraviglia visiva anch’essa fortemente identitaria. 

 

Khor Virap sullo sfondo – foto di Sandra Simonetti

 

Sembra infatti, percorrendo le province di questo Paese, che ogni risvolto culturale si sia elevato a elemento essenziale. Capita appunto con le identità minacciate, che dall’essere la culla della civiltà si sono ritrovate ridimensionate allo status di cuscinetto tra grandi potenze. Un ridimensionamento che suona come un’amputazione, con la cima innevata dell’Ararat che si lascia rimirare dagli spalti del monastero di Khor Virap. La distanza pare esigua, ma nel mezzo passa il filo spinato del confine turco. Van, Ani, Kars, tutti luoghi ormai andati, perduti oltre una frontiera. Ma almeno l’Ararat si può ammirare dalla stessa Yerevan, la capitale. La montagna doppia, la montagna sacra dove si crede si trovino ancora resti dell’Arca di Noé. Il luogo stesso in cui prosperava il giardino dell’Eden e dal quale ha iniziato a diffondersi la civiltà. Luogo che contiene ancora i misteri di una terra presente in più miti antichi, decisamente antecedenti all’Antico Testamento. Una montagna, l’Ararat, da alcuni ritenuta sede di divinità ora perdute: forse il trono stesso di Anahit, la dea. Forse. Perché ogni credenza è, per definizione, basata su un atto di fede. Atto perpetuato dai miti, dalle lingue, dalle leggende e dalle antiche verità sepolte nei testi sacri delle religioni. 

Se ora, a distanza di settimane, riguardo la fotografia scattata nella cappella, non vedo solo la Madonna e le candele. Ai miei occhi si palesa anche ciò che per motivi di scelta e spazio l’obiettivo non ha catturato. È la presenza di quelle due donne velate alle mie spalle. Eredi identitarie di un culto ancora più antico del proprio, di un modo di percepire il mondo che viene da molto, molto lontano nel tempo. E che trova spazio nella sua stessa negazione, in quell’incredibile processo d’osmosi che è la nascita delle religioni e il loro prendere forma. Un sincretismo almeno in parte spontaneo, capace di superare i confini, geografici e politici. 

Una bellezza silenziosa e brillante che qui, in Armenia, ha il pregio di lasciare ovunque impronte di misticismo. Un sentore più che una certezza, un’opalescenza che richiama sia la pietra di luna che le canzoni di Battiato. È sottile, proprio come una di queste candele. Speri che, se un giorno si dovesse spegnere, non sia a causa di un soffio brutale. Ma per il gesto gentile di una mano di donna che, con premura, la raccoglie per lasciare spazio a nuove fiamme.

LETTURE CONSIGLIATE

  • “THE SACRED HIGHLANDS Armenia in the Spiritual Geography of the Ancient Near East”, di Artak Movsisyan
  • “Quaderno di viaggio d’autore. Armenia, Georgia, Azerbaijan”, Centro di Documentazione La Cultura del Viaggio
  • “FIABE ARMENE”, di Hovhannes Toumanyan
  • “Incontri con uomini straordinari”, Georges I. Gurdjieff
  • “La masseria delle allodole”, di Antonia Arslan
  • “Armenia”, di Gilbert Sinoué
  • “La dea doppia”, di Vicki Noble
  • “L’ARMENIA PERDUTA Viaggio nella memoria di un popolo”, di Aldo Ferrari

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