Armenia, l’opposizione tenta il colpo gobbo. Situazione in stallo a Yerevan (It.Ibtimes.it 31.07.16)
Poche ore dopo il fallimento del golpe militare in Turchia, mentre Recep Tayyip Erdogan si apprestava a dare il via alla più ampia operazione di pulizia politica interna alle istituzioni turche che la storia della Repubblica ricordi, a Yerevan, capitale dell’Armenia, un gruppo armato faceva irruzione nel quartier generale della Polizia. Era l’alba di domenica 17 luglio 2016.
In quelle ore convulse i giornali italiani si sono affrettati a titolare “tentativo di golpe in Armenia” sulla falsariga di quello turco ma se è vero che i destini di Turchia e Armenia sono storicamente legati ciò non significa necessariamente che quel che accade in Turchia debba accadere anche in Armenia – e viceversa. Immediatamente, proprio in virtù di quanto accadeva nella vicina Turchia, i servizi dell’Armenian National Security si sono affrettati a chiarire che “non si tratta di un colpo di Stato” e che era stata instaurata una negoziazione con il commando armato composto da una ventina di persone facenti capo al gruppo ultranazionalista Sasna Tsrer, che chiedeva l’immediato rilascio di tutti i “prigionieri politici”, le dimissioni del presidente Serzh Sarkisian e sopratutto il rilascio incondizionato del proprio leader, Jirayr Sefilyan, attivista dell’opposizione antigovernativa in arresto da giugno per traffico d’armi.
49 anni nato in Libano, durante la guerra civile libanese a cavallo tra il 1975 e il 1990 Sefilyan prese parte alla difesa di Bourj Hammoud, il quartiere armeno di Beirut, e nel 1990 si unì al movimento nazionalista popolare Karabakh avente l’obiettivo di portare la regione del Nagorno Karabakh, prevalentemente popolata da armeni, dalla giurisdizione azera a quella armena, non chiedendo l’indipendenza né svolgendo propaganda anti-sovietica, almeno all’inizio. L’anno successivo però, nel 1991, sia il Nagorno Karabakh che l’Armenia dichiararono la propria indipendenza e pochi mesi dopo, nel gennaio 1992, scoppiò la guerra del Nagorno Karabakh contro l’Azerbaigian. Durante la guerra è stato comandante di brigata e infine luogotenente dell’esercito della Repubblica di Armenia. Arrestato nel 2006 assieme a uno dei leader di un gruppo di opposizione, secondo molte organizzazioni umanitarie per ragioni puramente politiche ed anche la Corte Europea di Giustizia nel 2012 ha parlato di “insussistenza di prove” all’origine del suo arresto. Fonda un partito di opposizione e nel 2015 viene espulso dal Nagorno Karabakh dalle autorità e durante l’uscita la polizia attaccò la colonna di 30 auto sulla quale viaggiava Sefilyan. Tra il 2015 e il 2016 viene arrestato altre due volte, accusato di attentato alla sicurezza nazionale e cospirazione contro lo stato armeno, che nel frattempo ha concesso lo sfruttamento di alcuni territori all’Azerbaijan: uno schiaffo ai nazionalisti e a quanti hanno combattuto la guerra contro gli azeri.
La negoziazione con gli assalitori del comando della Polizia di Yerevan è ancora in corso e si pensava risolta il 23 luglio, dopo giorni di stallo; nel frattempo però diverse manifestazioni popolari hanno animato Yerevan e le principali città armene, con qualche migliaio di persone che protestavano contro il governo e per tutta risposta sono state arrestate, fermate o ferite dalle forze dell’ordine. Secondo quanto sostiene Richard Giragosian, opinionista di al-Jazeera e direttore del Regional Studies Center armeno, a Gli Occhi Della Guerra l’occupazione del comando di Polizia e la presa di ostaggi da parte del gruppo di oppositori “è un atto di totale disperazione”: gli insorti speravano forse di provocare una reazione a catena di proteste di piazza ma così non è stato, o almeno non nella misura in cui si aspettavano.
Tra il 20 e il 21 luglio la polizia e i servizi di sicurezza armeni hanno arrestato altre decine di persone, che si sommano con gli attivisti ultranazionalisti e i loro leader già in carcere. La crisi degli ostaggi nel comando di Polizia si è risolta con un morto, due feriti e il rilascio di alcuni ostaggi mentre il gruppo di insorti ha chiesto e ottenuto di incontrare i media in una zona neutrale nei pressi della stazione di polizia di Erebuni, periferia sud di Yerevan. L’occupazione dell’edificio è invece continuata ed è tutt’ora in atto.
La repressione delle autorità di Yerevan non si è fermata qui: nella notte tra il 26 e il 27 luglio 30 persone sono state arrestate, accusate di aver partecipato alle manifestazioni di solidarietà al gruppo armato durante la crisi degli ostaggi. Tra di loro c’è anche una donna, la quale si è dichiarata prigioniera politica ed ha annunciato l’inizio immediato di uno sciopero della fame.
Il giorno dopo, 27 luglio, il ministro della salute armeno ha convocato una conferenza stampa dando la notizia di un nuovo sequestro: questa volta si tratta di medici, quattro persone che erano entrate nella struttura per assistere i feriti dell’assalto del 17 luglio, due membri del gruppo armato che si rifiutano di andare in ospedale per paura di venire arrestati. Dopo poche ore un’infermiera è stata liberata e in ostaggio sono rimasti in tre, due medici e un altro infermiere: “Vogliono semplicemente che i medici restino nella struttura” ha spiegato un membro del partito di opposizione ai giornalisti.
Le autorità armene hanno ordinato di deporre le armi, liberare gli ostaggi ed arrendersi ma senza porre un ultimatum. Il clima è molto teso ma difficilmente il gruppo d’opposizione armato riuscirà ad ottenere maggior sostegno popolare di quanto già non ne abbia avuto: la posizione estrema del gruppo infatti non è condivisa dai tantissimi oppositori politici al presidente armeno, meno apatici di un tempo ma su posizioni meno intransigenti. Difficile quindi pensare che lo stallo possa durare ancora molto tempo.