Armenia, la vita dopo la guerra (Osservstorio Balcani e Caucaso 09.10.24)
La storia di Suren, 42 anni, che si è trasferito dal Nagorno Karabakh in Armenia un anno fa, dopo l’attacco militare dell’Azerbaijan. La difficile vita di un uomo che ha già visto quattro guerre, la sfida quotidiana di prendersi cura della sua famiglia
“La guerra è una tragedia che non può essere espressa appieno a parole. Quando il primo proiettile è esploso vicino a casa mia, in quel momento, pensavo solo a mio figlio di quattro anni, terrorizzato che potesse succedergli qualcosa”, ricorda Suren, 42 anni, che si è trasferito dal Nagorno Karabakh in Armenia un anno fa. Suren è una delle oltre 100mila persone che sono state costrette a lasciare le proprie case.
Un anno fa, il 19 settembre, a seguito dell’attacco militare dell’Azerbaijan, l’intera popolazione del Nagorno Karabakh, fra cui oltre 115mila armeni, ha dovuto lasciare la propria casa nel giro di pochi giorni.
Questo esodo, l’ultimo stadio della politica di pulizia etnica, ha avuto luogo durante la sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, quando l’intera comunità internazionale si è riunita per l’ennesima volta per discutere della necessità di una risoluzione pacifica dei conflitti, della difesa di stabilità e sviluppo, condannando l’uso della forza, la violazione delle norme internazionali e dei diritti umani in diverse parti del mondo.
Nell’ultimo anno, il governo armeno ha adottato le misure necessarie, anche con l’aiuto dei partner internazionali, per affrontare le esigenze primarie e a medio termine degli armeni sfollati dal Nagorno Karabakh, nonché per sviluppare i necessari programmi a lungo termine.
“Non puoi immaginare quanto sia difficile accettare il fatto che devi lasciare la tua casa. Devi lasciarla alle spalle e andartene. Chiudere la porta e con essa un intero capitolo della tua vita. È incredibilmente difficile lasciare alle spalle tutto ciò che possiedi, tutto ciò per cui hai lavorato così duramente negli anni e dirigerti verso l’ignoto”, afferma Suren.
Suren racconta che, dopo aver accettato l’idea di andarsene, si è trovato di fronte a un’altra sfida: trovare un veicolo che potesse portare la sua famiglia in Armenia.
“Non ho un’auto e non so guidare, ma comunque in quel momento non c’era più nemmeno il carburante. Vivevamo sotto assedio da un bel po’ di tempo ed eravamo rimasti senza cibo e carburante. L’Azerbaijan ci aveva prosciugati. Avevo quasi perso la speranza di sfuggire al caos quando ho sentito che i trasporti pubblici sarebbero stati disponibili per portarci in Armenia. Mi sono affrettato a registrare la mia famiglia e ho iniziato a fare i bagagli. Ognuno di noi poteva portare solo una borsa. Abbiamo portato qualche vestito e basta”, dice lentamente Suren.
Per Suren, parlare del momento in cui h dovuto abbandonare la propria casa è particolarmente difficile. Dice che ha spento l’elettricità e il gas per evitare problemi in sua assenza, ha chiuso a chiave la porta e ha preso la chiave con sé, sperando che un giorno sarebbe tornato.
“A casa avevamo un telefono fisso. Quando sono arrivato in Armenia, ogni tanto chiamavo il numero di casa mia. Squillava, ma nessuno rispondeva. Questo mi dava speranza; era un segno che nessuno (azero) viveva a casa mia. In seguito, il telefono ha smesso di squillare. La linea telefonica è stata interrotta…”.
Uscire di casa e arrivare in Armenia non è stato facile. A causa del grande afflusso di rifugiati, l’unica strada era intasata per decine di chilometri. A quel tempo per raggiungere Goris servivano 2-3 giorni anziché 5-6 ore.
“No, non voglio ricordare. No, era il caos…”, Suren preferisce non soffermarsi sul passato. Dice di non aver dimenticato un solo momento e che quei ricordi gli balenano davanti agli occhi come scene di un film ogni giorno, ma sceglie di vivere nel presente.
La nuova vita in Armenia
Suren ha subito fatto domanda per la cittadinanza armena e in seguito ha trovato un lavoro. Oggi lavora nel suo ambito come avvocato. Non si lamenta di questa nuova fase della vita, riconoscendo che è stata difficile, ma si è adattato.
“All’inizio, la mia famiglia si è stabilita in una regione vicino alla capitale, Yerevan. Il governo ci ha offerto un riparo, ma io avevo dei risparmi e ho affittato una casa. È stata una tappa temporanea per noi, per raccogliere le idee e capire cosa fare dopo. Dopo circa un mese, abbiamo deciso di trasferirci a Goris. I miei genitori sono venuti con me. Viviamo in affitto e sia i miei amici che il governo ci hanno aiutato. Non mi lamento della vita di oggi; viviamo dignitosamente. Non so se questa è la nostra strada, ma non ci si arrende”.
Suren crede fermamente che se continui a piangere e a pensare al passato, la vita rimarrà bloccata, ma i suoi piani sono diversi: lui vuole vivere. “Ho 42 anni e ho già visto quattro guerre. Mi basta. Non voglio più vedere combattere o morire…”.
In seguito all’attacco dell’Azerbaijan al Nagorno Karabakh, 223 persone sono state uccise, tra cui 25 civili, cinque dei quali minorenni. Durante i combattimenti, 244 persone sono rimaste ferite, circa 80 delle quali civili, tra cui 10 minorenni. Venti persone sono scomparse, tra cui cinque civili. Ci sono stati circa 20 casi di profanazione di cadaveri, certificati da rapporti forensi.
Questa guerra è durata due giorni. Il cessate il fuoco è stato dichiarato il 20 settembre, quando le autorità del Nagorno Karabakh hanno accettato la proposta di Baku di deporre le armi, un messaggio trasmesso attraverso la missione di peacekeeping russa di stanza nel Nagorno Karabakh. Una settimana dopo questo incontro, l’ultimo presidente del Nagorno Karabakh, Samvel Shahramanyan, ha firmato un decreto per sciogliere la Repubblica del Nagorno Karabakh entro il 1° gennaio 2024.
Dopo dieci mesi di assedio, 24 ore di operazioni militari e l’annuncio dello scioglimento dell’Artsakh, oltre 100mila persone hanno iniziato la migrazione in Armenia. Oggi, il governo armeno sta fornendo loro assistenza e le loro vite sono entrate in una nuova fase.