Armenia, la seconda rivoluzione di Pashinyan: ora vuole cacciare i soldati russi e sogna l’ingresso nell’Ue (La Repubblica 23.06.24)

TBILISI – Via dalla Csto, l’organizzazione militare a guida russa. Accordi di pace con l’Azerbaijan costi quel che costi e normalizzazione dei rapporti con la Turchia. Relazioni più salde con le strutture di difesa ed economiche occidentali, fino a ipotizzare persino una richiesta di candidatura all’ingresso nell’Ue. Fuori i soldati russi dal Paese. Acquisti diversificati di armamenti. Questi gli elementi della seconda rivoluzione del premier armeno Nikol Pashinyan, dopo la prima, quella “di velluto”, che l’ha portato alla guida dello Stato del Caucaso meridionale nel 2018.

Un tentativo di trasformazione radicale dall’esito incerto, che punta a sottrarre Erevan dall’attrazione geopolitica gravitazionale della Russia, di cui fino a poco tempo fa, e per decenni, è stata l’alleato di ferro. O meglio: un fratello minore posto in tutto e per tutto sotto l’ombrello protettivo del Cremlino, ricompensato da Erevan con cieca fedeltà.

Diverse le incognite: innanzitutto la perdurante dipendenza strutturale da Mosca, che giustifica la cautela di Pashinyan nel compiere passi realmente decisivi. Come l’abbandono della Csto, l’organizzazione militare a guida russa di cui l’Armenia è membro con altre cinque repubbliche post-sovietiche. Nel settembre 2022, dopo aver ripreso il controllo, due anni prima, di parte del Nagorno-Karabakh e dei sette distretti azeri occupati da Erevan dagli anni ’90, Baku effettua incursioni militari all’interno dei confini dell’Armenia. Se la posizione neutrale della CSTO nella guerra del 2020 era stata giustificata con l’assenza di obblighi di intervento in quello che internazionalmente è riconosciuto come territorio dell’Azerbaijan, il bombardamento di postazioni armene avrebbe dovuto far scattare l’articolo 4 del Trattato di sicurezza collettiva, che prevede mutua assistenza in caso di attacco. Erevan lo invoca, la CSTO non si muove. Da quel momento, Pashinyan inizia la sua crociata: dal gennaio del 2023, l’Armenia diserta le esercitazioni militari congiunte, poi smette di presenziare ai vertici, infine a febbraio di quest’anno annuncia il “congelamento” della membership: espressione priva di significato legale ma che dà un nome a una situazione di fatto. Eppure, non se ne va.

Rispondendo a un parlamentare dell’opposizione, che chiedeva conto di questa contraddizione, il 12 giugno Pashinyan ha detto: “Andremo via, decideremo quando. Cosa pensi? Qual è il prossimo passo? Pensi che torneremo indietro? No, non c’è altra soluzione”. E mentre le agenzie di stampa internazionali battevano la notizia di quello che pareva un annuncio, il ministro degli Esteri Ararat Mirzoyan si affrettava a correggere il tiro: “Se qualcuno sostiene che il primo ministro armeno abbia affermato che l’Armenia sta lasciando la CSTO, si sbaglia”. Quando la decisione verrà presa, ha chiarito, “non torneremo indietro”. Un tentativo di gettare acqua sul fuoco che esemplifica la posizione delicata di Erevan.

Per quanto manchevole, se non ostile, la “mini-Nato” russa rappresenta al momento la sua sola garanzia di sicurezza. Non solo: soldati di Mosca sono schierati sui confini armeni con Iran, Turchia e, dalla guerra del 2020, in alcune province al confine con l’Azerbaijan. Su richiesta armena, la Russia negli scorsi mesi si è ritirata dall’aeroporto della capitale e da alcune postazioni sulla frontiera azera interessate da accordi tra Erevan e Baku. Ma finché non sarà siglato un accordo di pace con l’Azerbaijan, condizione ineludibile per qualsiasi normalizzazione dei rapporti con Ankara, difficilmente l’Armenia si spingerà fino a chiedere il ritiro integrale delle forze armate russe o la chiusura della base militare di Gyumri. E la buona fede dell’Azerbaijan rappresenta la seconda incognita per Pashinyan, che nelle trattative con lo storico nemico, condotte da una posizione di estrema debolezza, si sta giocando il suo capitale politico. Dopo aver individuato una sponda nell’Occidente e non più nella Russia, il primo ministro armeno appare vicino alla firma di un epocale trattato con Baku, che porterebbe alla completa demarcazione del confine tra i due Paesi e al riconoscimento della reciproca integrità territoriale.

Eppure, la retorica bellicosa e revanscista dell’Azerbaijan, nonché i dubbi sulla capacità degli Stati Uniti e dell’Europa (acquirente di gas azero) di rappresentare un argine efficace a potenziali iniziative aggressive di Baku, stanno portando un numero crescente di armeni a nutrire dubbi sul percorso intrapreso da Pashinyan.

La tenuta della società rappresenta la terza incognita per il premier, che da settimane si trova a fare i conti con manifestazioni di piazza che ne chiedono le dimissioni. La scintilla che ha convogliato il malcontento è stata un accordo con Baku sulla delimitazione di una sezione del confine tra Armenia e Azerbaijan nella regione di Tavush, che ha portato la restituzione di quattro villaggi disabitati azeri controllati da Erevan dagli anni ‘90. A provocare diffuso malessere è stata la natura unilaterale dell’intesa: Baku occupa circa 200 km di territorio armeno, ma non è stata prevista una contropartita. Se non ci ritiriamo, aveva affermato Pashinyan, “ci sarà un’altra guerra”. Proprio da Tavush, un gruppo di residenti capitanati dall’arcivescovo locale, Bagrat Galstanyan, ha marciato in protesta verso la capitale, arrivando a Erevan il 9 maggio. Quel giorno sono scese in strada, secondo diverse stime, tra le 20 e le 35mila persone. Un numero consistente, ma che impallidisce di fronte ai 250mila manifestanti in piazza al culmine della rivoluzione del 2018. Un mese dopo, il numero dei dimostranti si era dimezzato.

 

Bagrat Gastanyan
Bagrat Gastanyan (afp)

Fino al 12 giugno, quando a fronte di un tentativo di irruzione in Parlamento da parte dei manifestanti, le forze dell’ordine hanno lanciato granate stordenti sulla folla, provocando un centinaio di feriti. Il movimento “Tavush for the Homeland”, che anche per oggi ha annunciato un corteo di protesta, non sembra in grado di incanalare tutto il malcontento presente nella società armena, non da ultimo per l’affiliazione con il detestato sistema di potere che ha preceduto l’attuale governo. E la narrativa nazionalista-patriottica di cui l’arcivescovo Galstanyan è portatore appare disconnessa dalla realtà. Eppure, si tratta della prima opposizione organizzata dell’era Pashinyan, la cui popolarità è in forte declino. Nei due anni che separano il Paese dalle elezioni, una reale alternativa potrebbe prendere forma.

L’ultima incognita è costituita dal conflitto in Ucraina. Il protrarsi di una guerra d’attrito continuerebbe a drenare le energie di Mosca e permetterebbe a Erevan di proseguire nel suo graduale ma costante processo di emancipazione. Al contrario, un consolidamento delle conquiste russe, a maggior ragione se accompagnato da accordi di cessate il fuoco, darebbe nuovamente al Cremlino mano libera per dedicarsi al Caucaso meridionale, regione che considera di importanza vitale.

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