Armenia: la piccola, grande isola (L’Indro 11.05.21)
Fin dal dissolvimento dell’Unione Sovietica, l’Armenia è rimasta la ‘grande esclusa’ del Caucaso, e ha sviluppato una politica estera spesso dettata da una sostanziale incapacità di definire i propri reali interessi geopolitici
«Ogni anno, in questo giorno, ricordiamo le vite di tutti quelli che morirono nel genocidio armeno dell’epoca ottomana e ribadiamo il nostro impegno a impedire che atrocità simili accadano di nuovo».Con questa dichiarazione, rilasciata il 24 aprile scorso, Joe Biden è divenuto il primo Presidente degli Stati Uniti a riconoscere ufficialmente quella che gli Armeni chiamano ‘Metz Yeghern‘, la grande disgrazia.
Biden si è premurato di specificare che tale passo non intende accusare la Turchia di oggi. E, in effetti, nulla fa ritenere che la dichiarazione influirà negativamente sui rapporti turco-americani: ma, come era prevedibile, ha avuto in Armenia una grande eco, di cui il Primo Ministro Nikol Pashinyan ha fra l’altro approfittato per attutire il prevedibile impatto mediatico negativo delle proprie dimissioni, presentate il giorno seguente.
In realtà, al netto dell’utilizzo, per la prima volta in assoluto, della parola ‘genocidio’, la dichiarazione della Casa Bianca ha avuto come principale scopo quello di ingraziarsi gli oltre due milioni di elettori statunitensi di origine armena, oltre che di avvalorare di fronte all’opinione pubblica nazionale e internazionale ‘mainstream’ l’aura di baluardo dei diritti umani assunta dalla nuova Amministrazione dopo il quadriennio del ‘cattivo’ Trump, il ‘Metz Yeghern’ dei ‘liberals’ di ogni latitudine. Ma, quanto alla sostanza, difficilmente avrebbe potuto essere più anodina: tanto è vero che Recep Tayyip Erdogan, informato in anticipo da Biden, non ha ritenuto di intervenire personalmente per ribattere, delegando tale compito al proprio Ministro degli Esteri.
Al di là della soddisfazione espressa da Yerevan e dalla numerosa diaspora armena d’Occidente, la Casa Bianca potrebbe in realtà non aver reso un buon servizio alla causa dell’Armenia.
E’ molto difficile, se non impossibile, per un politico armeno assumere una posizione equilibrata sulla Turchia (e sui rapporti con il suo ‘protegé’ Azerbaijan) senza essere tacciato di tradimento. Ed è sostanzialmente per questo che, fin dal dissolvimento dell’Unione Sovietica,l’Armenia è rimasta la ‘grande esclusa‘ del Caucaso: una vera e propria ‘isola‘ priva di sbocco al mare che, proprio a causa di tale isolamento, ha sviluppato una politica estera spesso dettata -al netto dell’ovvio legame con Mosca- da una sostanziale incapacità di definire i propri reali interessi geopolitici. Tale isolamento, fra l’altro, è stato pagato molto caro anche in termini di sviluppo culturale della popolazione, che in gran parte ancora rimpiange la relativa sicurezza di cui godeva sotto l’URSS, senza trovare valide alternative nell’attuale, problematico modello di sviluppo; e che, di conseguenza, è politicamente molto sensibile alle promesse populiste.
Neppure il Primo Ministro Nikol Pashinyan, già giornalista investigativo, fustigatore di oligarchi e, come tale, oggetto di varie inchieste giudiziarie, arrestato nel 2009, liberato per amnistia nel 2011 ed eletto in Parlamento l’anno seguente sulla base di un programma incentrato sui diritti umani e su una lotta alla corruzione di stampo giustizialista, è sostanzialmente riuscito a migliorare tale situazione.
Eletto Capo del Governo nel 2018 sull’onda delle manifestazioni di piazza, dopo un durissimo duello con il Partito Repubblicano di centro-destra da molti anni al potere, Pashinyan, oltre a un’eliminazione piuttosto sbrigativa della ‘vecchia guardia’, era in realtà riuscito a conseguire un forte miglioramento dell’economia nazionale: nel 2019 l’incremento del PIL aveva infatti sfiorato l’8%. Ma ad attenderlo c’era, nella seconda metà del 2020, la sempiterna questione del Nagorno Karabakh, l’enclave armena in territorio azero divenuta Repubblica indipendente, seppur non riconosciuta internazionalmente, dopo la guerra del 1992-1994 fra Yerevan e Baku.
Da tempo, per vendicare quella bruciante sconfitta, l’Azerbaijan aveva avviato un vasto ‘build-up’ militare finanziato dalle sue ampie risorse di idrocarburi; la guerra scatenatasi infine lo scorso anno ha inflitto all’Armenia significative perdite umane e territoriali e Pashinyan, avendo accettato il 9 novembre un ‘cessate il fuoco‘ patrocinato da Mosca ma ritenuto umiliante dai vertici militari e da buona parte dell’opinione pubblica, è divenuto il primo leader armeno sconfitto dall’odiato nemico azero. A seguito delle forti proteste popolari, il 25 febbraio 2021 il Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, Generale Onik Gasparyan, ha chiesto pubblicamente le dimissioni di Pashinyan. Dopo che, per qualche giorno, il fantasma del colpo di Stato ha aleggiato sulle montagne armene, il Primo Ministro ha reagito rimuovendo Gasparyan, prima di dimettersi effettivamente, come detto, il 25 aprile, convocando nel contempo elezioni politiche anticipate per il prossimo 20 giugno.
Come tre anni fa, dunque, Pashinyan ha accettato una rischiosa scommessa: quella di sciogliere il Parlamento confidando in una vittoria elettorale. Ma le condizioni sono molto diverse rispetto a quelle del 2018, quando l’ex giornalista volava sull’onda di un successo annunciato: la sua stella si è appannata e i sondaggi, che gli assegnavano all’inizio del suo mandato un’approvazione popolare superiore al 90%, lo vedono oggi veleggiare poco sopra il 50%.
Un ultimo cenno sulle vaste risorse di idrocarburi del Caucaso, di cui l’Armenia è quasi del tutto priva ma che hanno fatto la fortuna del suo avversario azero: fra i pretesti per scatenare la guerra, l’Azerbaijan aveva indicato lo scorso anno improbabili sabotaggi armeni dell’oleodotto Baku–Tbilisi–Ceyhan e del South Caucasus Pipeline che trasporta il gas del Mar Caspio verso la Turchia e poi, tramite il TAP, in Europa. Si è trattato di un altro esempio dell’isolamento di Yerevan, da sempre esclusa da tali grandi infrastrutture e, nell’occasione, rimasta sola a protestare contro tali inverosimili accuse. Ancora una volta, i mistici monasteri di quello che è l’erede del più antico Paese cristiano del mondo sono stati testimoni -e quasi simbolo- di isolamento. Isolamento che la dichiarazione americana del 24 aprile, nonostante le apparenze, potrebbe avere ulteriormente accentuato.