Armenia, la misteriosa (Repubblica/Donna 03.10.17)

Cos’è questo paese? È la domanda a cui sono stati chiamati a rispondere creatori da tutto il mondo. Per il debutto della Triennale d’Arte Contemporanea fra Yerevan, Gyumri e il lago Sevandi Alessandra Mammì

Armenia, la misteriosa
Jia Zhangke, Black Breakfast, 2008

«Mi chiamo Mikayel Ohanjanyan, scultore, nato nel 1976 a Yerevan, durante gli anni dell’Armenia sovietica. Dopo l’indipendenza del 1991, ho studiato in Europa. Ora vivo a Firenze. Finché non ho incontrato Adelina Cu?beryan von Fu?rstenberg non mi sono posto domande sulla mia identità». Adelina, curatore sui generis, non mette insieme opere, ma artisti, cui lancia sfide, compiti, viaggi, letture, temi; perché una mostra non sia un collage di lavori, bensì un’esperienza, per loro e i visitatori. Così fu per Mikayel quando, nel 2015, si trovò accanto a connazionali a lavorare sul tema Armenity nell’isola di San Lazzaro, per la Biennale di Venezia; il padiglione vinse a sorpresa il Leone d’oro. Ora Adelina lo ha richiamato per la prima Triennale d’arte contemporanea d’Armenia.

Una missione che, per gli artisti convocati, comincia con l’obbligatoria lettura di un libro, Il monte analogo, scritto nel 1944 dall’eclettico surrealista René Daumal e rimasto incompiuto a causa della sua morte prematura. Un testo simbolico, esoterico, simile a una formula stregonesca: ispirerà i teosofi naturisti che in Svizzera, ai primi del 1900, ribattezzarono Monte Verità quello di Ascona, e l’immaginifico regista Alejandro Jodorowsky per il suo film di culto La montagna sacra. Fino a diventare testo di riferimento per Harald Szeemann, grande storico dell’arte e curatore degli anni ’70. Anche l’Ararat, magico e mitologico, è un luogo che esiste e non esiste. Per la Genesi, fu la prima terra emersa dal diluvio e dette asilo all’Arca. Per questo tormentato Paese, è un simbolo, riprodotto perfino nei cioccolatini dei duty free degli aeroporti. È un massiccio totem, coperto da ghiacci perenni che, con i suoi 5.137 metri, domina la capitale e l’immaginario di tutti gli armeni, anche quelli sparsi nel mondo per la diaspora. Eppure, sebbene dal suo nome venga quello dello Stato, l’Ararat è loro inaccessibile, al di là di una frontiera che lo ha deportato in terra turca.

Armenia, la misteriosa
Aleksey Manukyan, Urban Stamp, 2017.

Questa Triennale è iniziata così: con un libro e un viaggio che in aprile ha riunito artisti greci, francesi, russi, italiani, palestinesi, israeliani e iraniani, più naturalmente armeni, in un’esplorazione del territorio, e soprattutto in un’esperienza comunitaria. Fra cene e discussioni notturne, nel giardino anni ’20 di un hotel de charme, Villa Kars a Gyumri, l’Armenia si è ricomposta come un puzzle: le pietre di tufo rosse e nere; gli orizzonti spalancati dell’altopiano; il genocidio; la diaspora; l’architettura sovietica; la letteratura; l’eleganza grafica della scrittura; i terribili terremoti che scuotono la faglia su cui poggia l’intero Paese; gli anni ’90, con l’indipendenza e l’apertura al mondo; l’agricoltura e il bestiame, tuttora la più grande ricchezza; i cinesi che stanno costruendo la grande autostrada da Yerevan a Gyumri. Seconda città del Paese, sebbene distrutta dal sisma del 1988, conserva un centro antico integro, a differenza della capitale, stravolta dalla grandeur dell’urbanistica sovietica. Ed è a Gyumri (dove nacque Georges Gurdjieff, filosofo mistico esoterico e guru di Daumal) che ha sede la collettiva, nel decadente e affascinante Museo dell’architettura e della vita urbana.

Che cos’è l’Armenia? «Un paesaggio violento, forte, una vibrazione del territorio», risponde Mikayel che, per simboleggiarla, è ricorso a un mito. La sua è una potente scultura di rocce, imprigionate e incise, che narrano di un dio costretto a restare nascosto proprio in una roccia perché la terra non avrebbe potuto sopportare il suo peso fino al giorno in cui non fosse finalmente diventata giusta. Il Paese per Benji Boyadjian, israeliano di padre armeno, è invece «terra di conflitti come la mia; un viaggio nel tempo che attraversa dominazioni, imperi, massacri e ci trascina indietro fino all’età della pietra». E accanto a un misteriosa installazione, a metà tra macchina ottica e arma arcaica, mostra il suo diario di viaggio, con delicati disegni a matita: la finestra di un caseggiato popolare, il cibo venduto sul ciglio della strada, le poche e secche pietre di un rudere vittima di una guerra o di una scossa della terra. «Viaggio molto e sono un solitario.

Armenia, la misteriosa
Ayreen Anastas & Rene Gabri, And You, What Do You Seek?, 2017

Per me sono state una scoperta sia l’Armenia, sia l’esperienza collettiva», dice Francesco Arena, esploratore di luoghi impervi da cui nascono installazioni fra natura, storia, scienza, archeologia. «Con un collega armeno ho attraversato il territorio, ho parlato con gli abitanti, ho raggiunto gli archivi». Nella testa il libro di Daumal, negli occhi l’altopiano e le sue cave di ossidiana dalle pietre specchianti. Il monte, per Arena, si declina in una sinfonia di frammenti sapientemente ricomposti su tavoli da lavoro, come una stanza delle meraviglie. Ayreen Anastas & Rene Gabri sono una coppia. Palestinese lei, iraniano lui. Entrambi altissimi, magrissimi, silenziosi, misteriosi. Passi felpati, lunghi capelli, volti ossuti e intensi. Per mesi hanno camminato fra villaggi, città e fattorie, raccolto storie e testimonianze per il loro delicato film. «Ci siamo chiesti e abbiamo chiesto: ha senso lottare perché un genocidio sia riconosciuto? Dimostra forza o debolezza? Fino a che punto l’orrore può ricostruire identità?». Ecco che entra prepotente un tema rimosso: il genocidio del 1915, perpetrato dall’impero ottomano in decadenza. Il massacro di un milione e mezzo di persone, soprattutto anziani, donne e bambini, costretti a marciare nel deserto e morti di fame, sete e torture. Uno sterminio che i turchi ancora non vogliono ammettere, e che aleggia come un fantasma nei racconti e nelle opere della Triennale.

Si intravede anche nella performance dell’italiana Marta dell’Angelo e dell’armeno Aleksey Manukyan, un’iniziazione che riprende l’antichissimo monosandalismo greco e li vede scalare l’Ararat con un solo piede nudo. «Che cos’è l’Armenia?» chiediamo, infine, a chi ha voluto cercarla nella scrittura, ritmata da 38 caratteri obliqui simili a note su un pentagramma. Giuseppe Caccavale, napoletano di stanza a Parigi, ne ha fatto un affresco. Ha preparato un intonaco denso come burro per incidere sulle pareti del museo di Gyumri i versi, trasformati in disegno, di Osip Mandel’stam, poeta ebreo perseguitato da Stalin: «Armenia, minaccioso toro a sei ali, qui appare il lavoro agli uomini e gonfie di sangue venoso fioriscono rose autunnali. E amo la tua lingua di presagi sinistri, le tue giovani tombe, dove ogni lettera è tenaglia, ogni parola uncino».

Armenia, la misteriosa
Benji Boyadjian, Sedimentary Derivations, 2017

ISTRUZIONI PER L’USO
Termina oggi a Yerevan la prima parte della Triennale d’arte armena, con la mostra del grande fotografo modernista Gaspar Gasparian, armeno brasiliano scomparso nel 1966, e l’intensa installazione ispirata a Mozart di Ilya & Emilia Kabakov all’Hay-Art Cultural Center. A Gyumri, oltre alla collettiva nel Museo dell’architettura e della vita urbana, da non perdere i video di vari registi, da Jafar Panahi a Idrissa Ouédraogo, allestiti nella casa-museo delle sorelle Aslamazyan, bizzarre autrici di inquieti dipinti, ceramiche, disegni. Nella seconda parte (14/9-31/12), oltre all’installazione dello svizzero Felice Varini nella stazione centrale di Yerevan, la Triennale si sposta al Writer’s Resort sul lago Sevan: confronto fra progettisti armeni ed europei a cura dello storico dell’architettura Ruben Arevshatyan.