ARMENIA: In Piazza della Libertà non soffia più il vento? (Eastjournal 24.04.20)
Come ogni 24 aprile, l’intera comunità armena, sia in patria sia nella diaspora, si appresta a commemorare la pagina più triste della propria storia: il genocidio perpetrato dall’Impero ottomano, che causò la morte di un milione e mezzo di persone, è una delle tragedie più grandi che il ventesimo secolo ricordi. Vista la situazione – in Armenia si registrano 1200 casi di coronavirus e venti morti – il clima sarà ancora più plumbeo del solito a Erevan. Soprattutto perché il Medz Yeghern, il Grande Crimine, è tutt’ora un evento storico disconosciuto da molti: solo ventinove paesi (il trentesimo sarà la Siria; il parlamento ha approvato una risoluzione in febbraio) hanno fatto loro la definizione di genocidio approvata dalle Nazioni Unite. Non è un caso, ma una questione politica. Per molti, specie tra i piccoli e più deboli vicini, è troppo pericoloso irritare la Turchia, una grande potenza commerciale e militare, membro della NATO, snodo strategico delle forniture energetiche all’Europa.
Il senso di sconfitta riporta indietro nel tempo
La sensazione di ingiustizia e di rivalsa che si respira nella comunità armena riporta la mente delle generazioni più anziane al 1965. Proprio la sera del 24 aprile di quell’anno, migliaia di persone si radunarono in piazza in vista del cinquantesimo anniversario del “grande crimine”. Il messaggio che, a gran voce, veniva urlato dai manifestanti era cristallino: chiedevano al governo sovietico di riconoscere il genocidio. I cannoni ad acqua dell’esercito dispersero la folla, ma i manifestanti ottennero la loro vittoria: Mosca ordinò di costruire un memoriale del genocidio in cima alla collina di Tsitsernakaberd, da dove ancora domina Erevan. È proprio da quella piazza, rinominata Piazza della Libertà dopo la caduta dell’Unione Sovietica, che l’Armenia ha ritrovato il senso di identità che l’ha accompagnata fino ad oggi.
Le sorti del paese passano da una piazza
Molte delle lotte sociopolitiche del paese sono perciò passate da lì. Nel 1988 in Piazza della Libertà i manifestanti si sono ritrovati per protestare contro la gestione dei rifiuti tossici della centrale nucleare di Metsamor e della fabbrica chimica di Nairit. Nello stesso periodo, nello stesso luogo, nasceva il movimento per il Nagorno-Karabakh. I manifestanti di quella regione, i quali si erano già appellati al Cremlino per unirsi alla repubblica sovietica dell’Armenia, arrivarono in massa in Piazza della Libertà. Quelle giornate avrebbero trasformato per sempre il panorama geopolitico del Caucaso meridionale. La piazza è poi tornata sotto i riflettori durante le controverse elezioni presidenziali del 2008. Vi furono diversi raduni e picchetti a sostegno della rielezione di Levon Ter-Petrosyan. Le controversie sul risultato elettorale, che diedero la presidenza a Serzh Sargsyan, spinsero ancora più folla verso la piazza e, il primo marzo, sfociarono in a uno scontro fra manifestanti e polizia, con 10 morti e la dichiarazione dello stato di emergenza per 20 giorni. Di recente, Piazza della Libertà è stata teatro di altre proteste di stampo sociale; da quelle contro i rialzi dei prezzi dell’elettricità a quelle contro la riforma del sistema pensionistico. Proteste di un peso non indifferente, considerando le drammatiche condizioni economiche in cui versa l’Armenia.
Vi è una stretta connessione tra il sentimento di insoddisfazione che accompagna la comunità armena in questa annuale commemorazione del genocidio e le condizioni politico-sociali in cui versa il paese. L’estensione del riconoscimento a più paesi possibili ha sempre rappresentato una priorità dei governi armeni e benché l’adesione di Washington sia stata un passo avanti, rischia di essere una vittoria di Pirro. Con due dei quattro confini bloccati e un terzo della popolazione sotto la soglia povertà, la “Rivoluzione di velluto” di Nikol Pashinyan non ha prodotto i tanto attesi cambiamenti, né ha ottenuto la rivendicazione storica che gli armeni si attendono. Chissà che in Piazza della Libertà, finita la quarantena, non torni a soffiare il vento del 1965.