Armenia, il genocidio dimenticato (Gente e Territorio 17.04.23)
Lo sapete che il termine genocidio è di conio recentissimo? Se lo cercate su un dizionario d’antan, sul Tramater o sul Tommaseo, ad esempio, non trovate il lemma. Compare solo sui dizionari pubblicati dopo il 9 dicembre del 1948, quando, tra gli atti costitutivi della fondazione dell’ONU, l’Assemblea Generale adottò, con la Risoluzione 260 A (III), la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio.
L’umanità non aveva avuto bisogno, prima del ‘900, di un lemma per indicare questo crimine e, se non lo aveva cercato prima, possiamo dedurne con ragionevole certezza che fino ad allora non erano stati perpetrati delitti di tanta portata. C’erano state guerre terribili, crudeli, massacri agghiaccianti, ma la memoria umana non aveva memoria a fine ottocento di tentativi di sistematica distruzione di un gruppo etnico mediante l’eliminazione fisica degli individui che lo compongono, la dispersione delle famiglie, l’eradicamento dei bambini non uccisi dalla loro cultura tramite la deportazione e l’affidamento ad altre famiglie di diversa etnia o cultura, che si prodigano per recidere dalla loro mente ogni legame con le proprie origini, la soppressione delle istituzioni pubbliche e la demolizione dei monumenti e dei documenti d’archivio di un popolo. Quando diciamo di genocidio parliamo di tutto ciò, non di un massacro generico.
Il primo nella storia dell’umanità – e il più dimenticato – fu quello degli Armeni ad opera dei Turchi tra il 1914 ed il 1920. Un milione e mezzo di persone trucidate, bruciate vive, il saccheggio capillare dei loro beni patrimoniali, la distruzione delle chiese e delle biblioteche. A quel genocidio fecero seguito altri due, l’Holomodor degli Ucraini ad opera dei Russi sovietici negli anni Trenta, circa tre milioni di esseri umani soppressi per fame, ed il più noto, l’Olocausto degli Ebrei ad opera dei nazisti di Hitler, sei milioni circa di ‘giudei’ passati per i forni crematori nei lager.
Sconfitto Hitler, nel dopoguerra il mondo costituì l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) con l’obiettivo di prevenire e scongiurare nuove guerre. E nuovi genocidi.
La Risoluzione 260 A (III) dell’ONU, nell’istituire il reato penale universale del genocidio, così ne delimitò il concetto:
«Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
-
- uccisione di membri del gruppo;
- lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
- il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
- misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
- trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro».
La Risoluzione dell’ONU non considera con la dovuta attenzione, però, una costante nei tre genocidi del XX secolo: in tutti e tre i genocidi le vittime erano disarmate. Non si trattò di massacri contestuali ad uno scontro militare tra due gruppi armati, ma dello sterminio di minoranze etniche o culturali inermi da parte di Stati armati di tutto punto. Tanto inermi le vittime che neanche sospettavano di essere esposte al rischio dello sterminio.
Gli Armeni erano una delle tante comunità nazionali membra dell’Impero Ottomano, in cui avevano vissuto per secoli. Ad inizio del Novecento avevano finanche una loro rappresentanza politica eletta nel Parlamento di Costantinopoli. Nel ‘14, mentre i Giovani Turchi – partito politico laicista al governo – ne pianificavano la soppressione fisica ed il furto dei loro beni, i deputati armeni nel Parlamento addirittura ne appoggiavano il governo. Avevano cominciato già da fine Ottocento a subire violenze sempre più frequenti e crudeli da parte di Curdi e Turchi, perciò si erano armati. Per autodifesa. Il governo massonico dei Giovani Turchi, con la motivazione della preminente esigenza della sicurezza nazionale alla vigilia della Prima Guerra Mondiale e con l’appoggio della loro stessa delegazione parlamentare, li persuase a deporre le armi ed a consegnarle ai diversi commissariati ottomani presenti nei territori da essi abitati, impegnandosi a garantire la loro incolumità. Si fidarono gli sventurati e si autodisarmarono. Si arruolarono anche in massa nell’esercito ottomano, dove furono poi passati per le armi.
Il 24 aprile 1915, allo scopo ufficiale di tenere una grande convention di confronto culturale con la componente armena dell’Impero, tutta la sua classe dirigente – politica, culturale e religiosa – fu invitata a Costantinopoli. Una volta arrivati nella capitale, i rappresentanti di quella millenaria civiltà cristiana del Caucaso furono arrestati, quindi deportati nel deserto e portati alla morte. Ebbe inizio così il primo genocidio della storia dell’umanità.
Oggi l’Armenia è un piccolo Stato autonomo, di tre milioni di abitanti; un’altra decina sono gli Armeni della diaspora nel mondo. Nel 1988 la Repubblica Socialista Sovietica Armena istituì il Giorno della Memoria del Genocidio degli Armeni, fissandolo per il 24 aprile, il giorno della fatidica trappola mortale. L’attuale Repubblica post-sovietica ha conservato il 24 aprile come giorno del ricordo.
Poco sopra, dicendo dei tre genocidi del XX secolo, parlavamo di quello degli Armeni ad opera dei Turchi, di quello degli Ucraini ad opera dei Russi sovietici e di quello degli Ebrei ad opera dei nazisti. Non dicevamo, in quest’ultimo caso ad opera dei Tedeschi per l’evidente motivo che, sconfitto il nazismo, il popolo tedesco ha fatto pubblica ammenda della Shoah e riconosce il 27 gennaio di ogni anno come Giorno della Memoria dell’Olocausto. Non così i Turchi ed i Russi, che tuttora non solo negano le proprie responsabilità nei due genocidi, ma minacciano anche ritorsioni verso gli Stati ed i popoli che le ricordano.
Il 24 aprile non è perciò riconosciuto da tutti gli Stati del mondo come Giorno della Memoria, solo da alcuni. Tra questi non c’è l’Italia. Il gas azero ed il peso della Turchia nella NATO contano eccome in questa colpevole negligenza della nostra Repubblica. A fronte di tanto, tuttavia, numerose Regioni, Province, Istituzioni culturali, nonché Comuni italiani hanno deciso in autonomia di riconoscere il 24 aprile e ne ricordano annualmente la tragedia.
Tra questi Comuni, dallo scorso anno, c’è anche Cava de’ Tirreni. Nella città metelliana, in località Croce di Cava, tra il ‘600 e l’800 vissero da eremiti alcuni monaci armeni. A Napoli risiedeva da secoli una piccola ma significativa comunità armena. Ne fa testimonianza San Gregorio Armeno, la celebre strada oggi detta ‘dei presepi’. Erano mercanti e una volta all’anno si recavano a Salerno per partecipare alla sua fiera. Fu così che, passando per Croce di Cava, un giovane monaco armeno, fra’ Giovanni di Giovanni, fu attratto da una chiesetta ormai in rovina e decise di trasferirvisi per vivervi da eremita. A lui ne succedettero altri fino al 1819, quando l’ultimo morì. Prima di rendere l’anima a Dio aveva aderito al cattolicesimo, era diventato sacerdote e si era integrato nel presbiterio diocesano. Nella biblioteca di Cava tuttora sono conservati cinque volumi in lingua armena a tema religioso, ovviamente.
Quest’anno il Comune di Cava de’ Tirreni, in collaborazione con l’associazione Joined Cultures, ha onorato la Memoria del Genocidio invitando Robert Attarian ed Emanuele Aliprandi, membri della Comunità armena di Roma, a tenere una serie di incontri con la cittadinanza e con gli studenti del Liceo Scientifico Genoino. Contestualmente il Comitato per la difesa della Biblioteca ha inaugurato una mostra sugli Armeni e l’Italia, con una sezione dedicata sugli Armeni di Cava com’è naturale. La mostra è stata inaugurata venerdì 14 aprile mattina dalle stesse personalità armene di cui sopra.
È stata una due giorni – quella del 13 e 14 aprile – molto intensa con momenti di vibrante emozione. Ad esempio quando Elisabetta Musco, cavese di madre armena, a sua volta figlia di due profughi fuggiti dalla deportazione ad inizio Novecento, ha raccontato la storia drammatica ed insieme meravigliosa dei suoi nonni.
Per chiudere una parola in più va detta sulla mostra: è una vera gemma, piccola ma esaustiva, soprattutto inappuntabile nei riferimenti storici. Resterà aperta fino al 28 aprile.