Armenia e Azerbaigian: accordi e disaccordi sul confine. Di Emanuele Aliprandi (parte prima) (Storiaverità 07.10.24)

L’accordo dello scorso 19 aprile tra Armenia e Azerbaigian per la definizione di una sezione del confine tra la regione armena di Tavush e quella azera di Gazakh è stato salutato con soddisfazione dalla comunità internazionale in quanto visto come un piccolo passo verso un definitivo accordo di pace. Ma ha anche dato vita a particolari dinamiche politiche che hanno prodotto in Armenia manifestazioni di dissenso e atti di disobbedienza civile. Vale la pena soffermarsi, per quanto sinteticamente, su alcuni aspetti della questione per provare a capire cosa stia effettivamente accadendo in Armenia e quali possano essere le ricadute su scala regionale.

Questione di confine

L’accordo di cui sopra ha riguardato un breve tratto di una dozzina di chilometri di un confine lungo circa mille chilometri. Questa definizione è stata fortemente “caldeggiata” dalla leadership azerbaigiana perché l’area in questione ha un alto impatto strategico: infatti, con la delimitazione di tale porzione di frontiera l’Azerbaigian ha preso il controllo di alcune centinaia di metri della statale che porta in Georgia (uno dei tre principali accessi verso Tbilisi) e del territorio dove passa il gasdotto proveniente dalla Russia. Inoltre, Baku ha spostato il confine verso ovest e lo ha avvicinato sempre di più alle exclave di epoca sovietica il cui controllo con ogni probabilità sarà il prossimo passo nelle richieste di Baku. All’indomani della demarcazione materiale del nuovo confine, i soldati azeri si sono posizionati nella porzione di territorio a loro assegnata con tanto di cerimonia di alzabandiera e slogan patriottici. Nelle stesse ora l’autoritario presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, in un discorso celebrava l’ennesimo successo personale e si vantava di aver costretto ancora una volta l’Armenia a soddisfare le sue richieste. Parole rivolte certamente a un pubblico interno (come ha commentato il presidente dell’Assemblea nazionale armena, Simonyan) ma che poco si conciliavano con le dichiarazioni di tutt’altro segno provenienti da diverse capitali.

Nagorno Karabak: carri armati azeri.

Le proteste dei residenti armeni

La cessione di territori all’Azerbaigian è avvenuta sulla base di una mappatura del confine risalente al 1976, successivamente confermata nel 1979 dall’istituto cartografico dell’URSS. Nel corso di una riunione di governo, il 16 maggio, il premier armeno Pashinyan ha ricordato come questa mappatura sia l’ultima ufficialmente disponibile e pertanto la definizione del confine secondo tali parametri è in linea con i principi della dichiarazione di Alma Ata (oggi Almaty). La demarcazione (che ha permesso la restituzione all’Azerbaigian di quattro piccoli insediamenti in rovina conquistati dagli armeni con la guerra degli anni Novanta) ha creato preoccupazione fra i residenti armeni di alcuni villaggi di confine (Voskepar, Baganis e Berbaker) ma soprattutto le proteste dei residenti del villaggio di Kirants. In questo insediamento, oltre a tratti di strada statale, sono finite agli azeri alcune costruzioni e attività produttive. Inutilmente la municipalità aveva proposto alla controparte lo scambio di queste aree con altre di maggior estensione utilizzate per il pascolo: Baku è stata irremovibile nel non scostarsi dalla mappa ufficiale. Le proteste delle comunità locali sono state incanalate nel movimento “Tavush per la madrepatria” alla cui guida si è posto il cinquantatreenne arcivescovo della locale diocesi Bagrat Galstanyan che ha dato vita a una marcia di protesta fino alla capitale Yerevan, culminata con una grande manifestazione in piazza della Repubblica il 9 maggio alla quale hanno partecipato oltre trentamila persone. Alla base dell’insoddisfazione locale non vi sono solo i problemi tecnici legati alla cessione territoriale pressoché unilaterale, ma il fatto che la stessa è stata di fatto obbligata dall’Azerbaigian nonostante questi occupi oltre 200 kmq di territorio armeno lungo altre sezioni del confine. Nel corso dei successivi mesi, tuttavia, la forza di questo movimento di opposizione è venuta progressivamente meno nonostante l’incessante attività del suo capofila.

Villaggio armeno bombardato dagli azeri.

Lo strappo della Chiesa armena

Il movimento, guidato da Galstanyan (che era stato nominato arcivescovo nel febbraio dello scorso anno, ha avuto immediato appoggio da parte della Chiesa Apostolica armena che ha preso una netta posizione a favore dei manifestanti e ha attaccato come mai era accaduto nel passato il governo di Pashinyan. I rapporti tra questi e la Santa Sede si erano, a dire il vero, già guastati da tempo. Basti pensare che la televisione pubblica armena aveva deciso di non mandare in onda il tradizionale messaggio di Capodanno di S.S. Karekin II, Catholicos di Tutti gli Armeni. Negli ultimi tempi, soprattutto dopo la sconfitta nella guerra del 2020, la chiesa armena ha assunto una posizione sempre più critica nei confronti del governo Pashinyan accusato di aver ceduto al nemico l’Artsakh (nome armeno per il Nagorno Karabakh) ed di essere troppo arrendevole di fronte alle minacce di Aliyev. L’istituzione apostolica armena, dal 1991 garante della stabilità istituzionale della repubblica armena indipendente, è andata così assumendo posizioni più politiche e Karekin II si è progressivamente avvicinato ai toni narrativi adoperati da Aram I, Catholicos di Cilicia, molto vicino alla diaspora armena. Da ultimo, entrambi i Catholicos hanno appoggiato l’iniziativa di Galstanyan e l’apice dello scontro con il governo si è avuto lo scorso 28 maggio (Festa della Repubblica) allorché la polizia ha impedito loro l’accesso al memoriale della vittoria di Sardarapat. La presenza di membri del governo alla cerimonia di riconsacrazione della cattedrale di Etchmidzin ha rappresentato un segnale di disgelo fra potere laico e religioso.

Protesta debole

La prima manifestazione a Yerevan ha raccolto, come detto, oltre trentamila persone e stimolato Galstanyan a impegnarsi in una serie di colloqui con politici di opposizione e personalità della società civile per dare vita a un movimento unitario contro Pashinyan. Ma il suo tentativo di creare una coalizione forte non ha sortito i risultati sperati anche a causa di una serie di veti incrociati delle varie fazioni politiche armene. Al punto che l’arcivescovo è stato indicato come soggetto super partes per guidare un governo di transizione. Si è parlato di impeachment per Pashinyan (ma di impossibile attuazione stante la maggioranza in parlamento) e della impossibilità per Galstanyan (che ha anche la cittadinanza canadese) di ricoprire il ruolo di Primo ministro. La seconda manifestazione, il 26 maggio (giorno che peraltro è stato segnato da un’inondazione nel nord del Paese), ha visto un’affluenza di circa ventimila persone, in calo rispetto alla precedente sicché il movimento ha cominciato a dare vita a una serie di azioni di “disobbedienza civile” quali ad esempio il blocco delle strade con le auto che hanno finito con l’irretire la popolazione della capitale. Ci sono stati alcuni tafferugli, circa trecento fermi (quasi tutti rilasciati in breve tempo). Non ha poi giovato all’iniziativa sapere che l’ex presidente Kocharyan appoggiava l’arcivescovo. Pashinyan e il suo partito “Contratto civile” hanno avuto vita facile nell’accusare la vecchia dirigenza armena dietro il tentativo di scalzarlo dal potere.

L’Armenia reale di Pashinyan

In un intervento televisivo il 24 maggio, giorno dell’attuazione dell’accordo di delimitazione del confine, Pashinyan ha spiegato il suo progetto che guarda a un’Armenia reale da contrapporre all’Armenia “terra promessa” che non può essere attuata. Il premier armeno ha sostenuto che per garantire la sovranità sui 29.743 km2 della repubblica è necessario stabilire un principio condiviso con la controparte azera; quindi la delimitazione, sia pure a costo di dolorose rinunce, è l’unico strumento che può garantire la futura sicurezza dell’Armenia stessa. Tuttavia i rapporti con il bellicoso Azerbaigian rimangono tesi e le recenti dichiarazioni dell’autoritario presidente Aliyev non inducono all’ottimismo su una veloce conclusione dei negoziati di pace.