Armenia, dove vino e guerra non hanno tempo (Domani 05.06.23)
- Secondo la Bibbia, la storia del vino inizia con la fine del diluvio universale, quando Noè raggiunse la cima del monte Ararat, introducendone la coltivazione come simbolo di una ritrovata armonia tra Dio e l’umanità.
- Con altitudini elevate, un clima dinamico e terreni vulcanici, i vitigni autoctoni dell’Armenia sono stati utilizzati per la vinificazione nel corso dei millenni e solo ora vengono riscoperti grazie alla diaspora armena, forti delle loro nuove esperienze, risorse e contaminazioni.
- Quello che oggi è conosciuto come il rinascimento del vino armeno è dovuto ai primi grandi progetti vitivinicoli iniziati con il rientro della diaspora armena, desiderosa di contribuire allo sviluppo di una giovane nazione in pieno fermento.
«Da qui ai prossimi dieci anni i vini armeni cambieranno moltissimo». A sostenerlo è la fondatrice di Zulal Wines, una giovane cantina armena che coniuga tradizione e modernità in un paese schiacciato tra il desiderio di divenire una democrazia moderna e la perenne minaccia di una guerra con l’Azerbaijan.
Zulal è la creazione dell’armena Aimee Keushguerian che, ad appena 23 anni decide di fondare la sua azienda vitivinicola. “Puro” in armeno, Zulal è stata fondata per esprimere le caratteristiche più pure dei vitigni autoctoni dell’Armenia.
Secondo la Bibbia, la storia del vino inizia con la fine del diluvio universale, quando Noè raggiunse la cima del monte Ararat, introducendone la coltivazione come simbolo di una ritrovata armonia tra Dio e l’umanità. Il mito trova poi conferma nei racconti di Erodoto, Senofonte e Strabone, i quali ne attribuiscono la scoperta al popolo armeno. Tuttavia, solo quando l’archeologo Boris Gasparyan scopre le tracce della più antica vinificazione preistorica ad oggi conosciuta, in una caverna a pochi metri del fiume Arpa, in Armenia, risulta chiaro a tutti che il mito era divenuto storia. È il 20011 e il complesso, noto come Areni-1, diviene ufficialmente la più antica cantina al mondo.
Con altitudini elevate, un clima dinamico e terreni vulcanici, i vitigni autoctoni dell’Armenia sono stati utilizzati per la vinificazione nel corso dei millenni e solo ora vengono riscoperti grazie alla diaspora armena, forti delle loro nuove esperienze, risorse e contaminazioni.
UNA STORIA ANTICA
La Vitis vinifera nasce tra il microclima ideale delle montagne del Caucaso a più di 1000 metri sul livello del mare. Un suolo ricco di minerali e il sole presente 300 giorni l’anno, hanno permesso alla vite comune di crescere naturalmente ben prima che gli uomini imparassero a coltivarla.
«Se coltivi l’uva, vuoi che le sue radici vadano a cercare l’acqua più in profondità possibile perché più le tue uve lottano, più acquistano carattere e complessità», ci spiega Aimee.
Nella Valle dell’Arpa, dove ha sede il vigneto di Zulal, si possono trovare diverse specie di viti autoctone. Durante il Neolitico, gli uomini delle caverne le raccoglievano, le pestavano e fermentavano naturalmente.
«Quando lo bevevano, si inebriavano e pensavano che fosse una bevanda divina. Era qualcosa più grande di loro e pertanto la usavano per scopi cerimoniali».
Ed è solo a causa dell’ingerenza delle politiche agricole dell’èra sovietica nella società caucasica che l’industria del vino nazionale non si è ancora sviluppata. La scommessa per Aimee è «rendere il nostro vino famoso in tutto il mondo entro dieci anni».
WINEWORKS
Quello che oggi è conosciuto come il rinascimento del vino armeno è dovuto ai primi grandi progetti vitivinicoli iniziati con il rientro della diaspora armena, desiderosa di contribuire allo sviluppo di una giovane nazione in pieno fermento. Di ritorno dall’estero, gli imprenditori hanno portato con loro un bagaglio di conoscenze acquisite dal contatto con una cultura enologica consolidata, affinata dalla degustazione di vini pregiati. Una volta tornati in patria, hanno dunque investito capitali e competenze con l’obiettivo di portare in auge un settore produttivo quasi dimenticato negli anni sovietici.
È questo il caso della famiglia Keushguerian. Il padre di Aimee, Vahe Keushguerian, era già proprietario di due cantine acclamate a livello internazionale in Toscana e Puglia. Dopo aver fondato Karas Wines che in breve tempo è diventato il più grande progetto vitivinicolo del paese, si è impegnato nella creazione di WineWorks, di cui Aimee fa parte. L’iniziativa nata per sostenere i produttori autoctoni nella creazione del loro marchio, collabora oggi con ONEArmenia nel progetto From Farm to Bottle.
«Ci sono circa 500 uve autoctone e 500 uve da tavola, e poi 500 uve da vino», commenta Keushguerian entusiasta quando la incontriamo per la prima volta presso InVino, il primo wine bar del paese fondato a Yerevan esattamente dieci anni fa.
Il motivo per cui la famiglia di Keushguerian esporta i suoi vini anche negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Russia è quindi frutto della lungimiranza di suo padre che ha saputo riconoscere un potenziale nel vino armeno quando non c’erano enoteche nel paese, e la maggior parte dei cittadini beveva principalmente brandy e vodka.
Sempre ispirato dal business come un modo per portare cambiamenti sociali, Vahe è stato anche recentemente nominato consulente del Presidente per i programmi di sviluppo nella contesa regione dell’Artsakh, nota anche come Nagorno-Karabakh. Desiderosa, dunque, di fare la sua parte nell’annoso conflitto, Aimee, cresciuta tra l’Italia e gli Stati Uniti, voleva fondare una cantina che «preservasse la terra armena per gli armeni».
UN VIGNETO DI CONFINE
Nel viaggio che ci porta dalla capitale Yerevan ad Areni, sede di Zulal, Keushguerian ci racconta la storia di uomini e vigneti che vivono tra il salto nel mondo moderno e il rischio di essere annientati in un ennesimo conflitto con l’Azerbaijan, storico rivale dell’Armenia. Questa nuova e fiorente cantina ne è un chiaro esempio: a causa della presenza di un avamposto militare azero costruito a soli 500 metri dal vigneto tutti noi siamo tecnicamente nel raggio dei cecchini, e la vigna, oltre a dare linfa al territorio, serve anche da confine militare con l’Azerbaigian.
Lungo la strada, superiamo il villaggio militare di Yeraskh, a meno di 70 chilometri dalla capitale. Guardando in alto, si possono facilmente vedere le colline tappezzate di bunker e bandiere azere. Per motivi di sicurezza, decidiamo di fermarci a rifornire l’auto velocemente.
Da queste postazioni, nel 2020, l’Azerbaigian ha lanciato i droni verso Yerevan, fortunatamente abbattuti dai militari armeni prima di raggiungere la capitale.
Quando ripartiamo, notiamo una base militare russa fuori dalla finestra della nostra auto. Dopo l’ultimo scontro aperto, la Russia ha inviato qui una “forza di pace” di 2000 uomini. Lungo la strada, mentre ammiriamo paesaggi mozzafiato, aspre montagne, chiese, piccole città e centri comunitari, Keushguerian indica le varie postazioni militari azere.
Arrivati al vigneto quello che colpisce di più sono le tinte color verde, rosso e giallo delle viti. Da millenni in questa valle si producono rossi vini rossi dal corpo robusto e il sapore intenso, anche se Keushguerian è fiduciosa che nel prossimo futuro, «vini bianchi e spumanti diverranno più conosciuti».
Anche Jason Wise, filmmaker e produttore di vini ne è rimasto affascinato: «Ha girato in tutto il mondo e ha detto che ha visto tanti vigneti ma che questo è uno dei più interessanti in cui sia mai stato», ci rivela Keushguerian.
Zulal è un esempio di come la viticoltura armena stia diventando sempre più importante nel mondo. Da quando InVino ha aperto nella capitale, la società civile armena ha iniziato ad apprezzarne nuovamente il consumo tanto che il governo oggi finanzia una scuola di enologia nella capitale al fine di creare nuovi professionisti del vino in grado di lavorare in un settore considerato strategico per l’economia del paese.
UN’AZIENDA PIONIERISTICA
Per quanto concerne la coltivazione dei vigneti, molti agricoltori in Armenia ancora oggi prediligono la quantità alla qualità. Far fronte alla mentalità sovietica è una delle principali sfide per coloro che desiderino introdurre le moderne tecniche vitivinicole in Armenia. Per quanti si sentono discendenti di un popolo le cui tradizioni rischiano di scomparire tra la violenza di un nemico che ne vuole distruggere l’identità culturale e il sopraggiungere di una modernità sconosciuta ai loro genitori, il ritorno di facoltosi imprenditori dall’estero non sempre è visto di buon occhio.
Memore degli insegnamenti del padre, la cantina Zulal è passata in soli cinque anni da 10mila a 60mila bottiglie di produzione. Il segreto per Keushguerian sta nel lavorare con e per i contadini.
«Possiamo dire loro che acquisteremo la stessa quantità di uva, pagheremo lo stesso importo, ma vogliamo che si concentrino sui sapori, anche a costo di una minore produzione. Quando hai volumi troppo grandi, il rischio è che diventino tutte un po’ acquosi». Inoltre, a coloro che lo desiderino, Zulal fornisce corsi di potatura ed enologia specializzata.
Ciò che rende i vini Zulal un caso emblematico nell’universo della viticoltura armena è dunque la capacità di Aimee Keushguerian di coniugare sinergia e impegno per lo sviluppo della comunità senza venir meno alle necessità del mercato internazionale.
Tutti i nuovi vigneti che vengono piantati entrano in produzione con l’irrigazione a goccia, e l’agricoltura ad alta densità. «In questo momento, abbiamo più domanda che offerta. Così, ora, tutti stanno piantando nuovi vigneti per aumentare la qualità delle loro uve».
Le principali varietà, Areni e Voskehat, provengono da circa 40 produttori situati nei vicini villaggi di Aghavnadzor e Rind. Tutti i partner di Keushguerian sono residenti nella valle di Arpa. Pochissimi tra loro hanno mai lasciato la loro regione natia.
«Quando si pianta un nuovo vigneto, ci vogliono cinque anni per produrre dell’uva. In passato, si privilegiavano vigneti antichi dal fogliame intricato», spiega Keushguerian mentre passeggiamo tra le vigne a pochi metri dal confine azero. «Ora quello che facciamo con molti giovani vigneti è micro-vinificare l’uvaggio per poter sperimentare e capire quello che abbiamo in termini di diversità. È un’innovazione importante che ci permette di valorizzare sempre più le nostre varietà autoctone».
Per mettere le cose in prospettiva, quando si guarda al mondo del vino ci sono due grandi categorie a cui fare riferimento. Si può infatti parlare di due mondi: uno “vecchio” e uno “nuovo”. Il vino del vecchio mondo proviene dai paesi europei le cui uve sono storicamente autoctone anche se più giovani di quelle coltivate nel Caucaso.
Nel nuovo mondo, invece, le viti sono state importate dall’Europa. Si tratta di quei grandi produttori come Stati Uniti, Argentina e Australia che inizialmente non conoscevano la vite e che solo dopo l’arrivo degli europei hanno cominciato a produrne su larga scala.
«Quello che sta accadendo ora», commenta Keushguerian, «è la fioritura di un terzo mondo che racchiude i paesi dell’ex Unione Sovietica e del Medio Oriente. A causa della guerra e della geopolitica le tradizioni vitivinicole di Iran, Turchia, Libano, Palestina, Egitto, ma anche Armenia e Georgia non hanno potuto ancora prendere pienamente parte all’industria vinicola internazionale».
Quello che oggi si chiama rinascimento del vino è dunque frutto della «capacità di coniugare mondi antichi con i moderni standard internazionali. Questi paesi stanno evolvendo le loro industrie e i loro vini stanno iniziando ad essere esportati e apprezzati».
LA GUERRA
Coniugare tradizione e modernità non è però l’unica sfida a cui la giovane erede deve far fronte. Gli armeni che lavorano nei vigneti vivono una quotidianità nella perpetua paura di incursioni militari azere. Sebbene esistano trattati internazionali che riconoscano la piena sovranità territoriale armena sui territori di confine, dispute e sortite militari sembrano non conoscere tregua, come testimoniano le numerose violazioni recentemente avvenute.
Per i lavoratori di Zulal, durante la guerra tra l’Armenia e l’Azerbaigian del 2020, la raccolta ha richiesto circa due settimane e mezzo. Di norma una vendemmia non richiede più di una settimana. Ancora oggi, questa guerra ormai decennale ha portato a scontri di varia intensità.
Secondo gli osservatori internazionali, l’ennesimo conflitto aperto per il controllo dell’Artsakh è ormai imminente. Tra le perdite dell’ultimo conflitto, anche la famiglia Keushguerian ha dovuto abbandonare un vigneto. Anche per questo Aimee crede fortemente nel valore della terra, anche al rischio di perderla. Per gli armeni la presenza sul territorio a qualunque costo è un valore fondamentale.
Forse, ad oggi, il suo più grande successo è aver dato una speranza ai molti agricoltori che un tempo avevano abbandonato la loro terra e che oggi «tornano per rivitalizzare le vigne armene».
Questa società fortemente patriarcale, costretta a imporre la coscrizione militare ai suoi uomini, anche a causa delle alte perdite in combattimento, sta evolvendo. C’è un nuovo ruolo da protagoniste riservato alle donne. Sono infatti le giovani imprenditrici armene come Keushguerian a dover stimolare o introdurre il cambiamento necessario a far passare l’Armenia da uno stato post-sovietico a una modera democrazia da proteggere e salvaguardare. Ne sono coscienti anche le organizzazioni internazionali come l’Onu, che gestisce regolarmente progetti per donne imprenditrici.
Sebbene oggi la maggior parte dei turisti visitino il paese per ammirarne i vecchi monasteri e le montagne, Keushguerian pensa che alla fine, il turismo del vino riuscirà a ottenere la fetta di mercato che gli spetta. «La nostra qualità continua a migliorare ogni anno. Se si cercano uve sopravvissute per migliaia di anni e mai provate prima d’ora è il momento giusto per venire in Armenia. A breve tutto sarà diverso».