Armenia-Azerbaijan, crisi post conflitto (Osservatorio Balcani e Caucaso 21.05.21)
La cosiddetta crisi di Syunik, provincia armena al confine con il Nagorno Karabakh, è iniziata nel più paradossale dei modi. Alle 8 del mattino del 12 maggio scorso un pastore stava portando a pascolare il proprio gregge in direzione del lago Sev (sul confine tra Armenia e Nagorno Karabakh). Invece di non incontrare nessuno, come sarebbe stato normale in un’area così scarsamente popolata, ha incontrato dei militari azeri che gli hanno detto di tornare indietro perché lì c’erano loro. Il pastore è quindi tornato al villaggio e ha dato l’allarme: era in atto un’incursione azera .
Fino al mezzogiorno del 12 si sono inseguite informazioni e contro-informazioni, con il ministero della Difesa armeno che negava che vi fossero problemi di sconfinamento. Ma entro sera era diventato chiaro che ci si trovava davanti non ad un’incursione circoscritta ma ad un avanzamento di un contingente di circa 200 soldati azeri in quello che per l’Armenia è indisputabilmente territorio armeno. L’Azerbaijan, per determinare il tracciato del confine in quell’area, si baserebbe invece su una mappa del 1974, evidentemente difforme da quelle utilizzate da parte armena, nonché dal sapere consuetudinario locale.
L’episodio ha finora avuto come unica conseguenza lo spostamento di 3.5 km del confine a vantaggio dell’Azerbaijan. Su quanto accaduto si è attivata una negoziazione trilaterale armeno-russa-azera per evitare che la crisi degenerasse.
Analisi
L’episodio è sintomatico di vari fattori. Le modalità in cui è emersa la presenza militare azera in territorio armeno, per un incontro occasionale di un pastore, rivela che c’è ancora una grande disorganizzazione lungo i nuovi confini armeni, stabiliti dopo il recente conflitto per il Nagorno Karabakh.
In Armenia alcuni commentatori hanno puntato il dito contro l’esercito ma anche contro i Servizi di Sicurezza Nazionale che erano già stati oggetto di critiche durante la guerra . Si chiedono come sia possibile che un’area che è considerata sensibile possa essere stata così trascurata sotto il profilo della sicurezza.
Effettivamente l’incidente si può ripetere in vari punti del nuovo confine in quanto effetto della nuova esigenza di delimitazione e demarcazione, ma Syunik era già nell’occhio del ciclone.
Il processo di delimitazione e demarcazione del confine è delicato ovunque: il Nagorno Karabakh ha circa 398 km di confine con Armenia e Iran e, fino al 2020, non era un problema il fatto che fra Armenia e Nagorno Karabakh non vi fossero controlli: era più che altro un limite amministrativo, le comunità erano contigue e integrate. Ora è un confine di stato fra paesi con rapporti ostili, con comunità che non si stanno integrando dopo la nuova demarcazione. Gli armeni hanno abbandonato i territori che sono passati a Baku. L’Azerbaijan una volta sminata e riqualificata l’area vi reinsedierà gli sfollati della prima guerra per il Nagorno Karabakh.
Il processo è complesso lungo tutto il confine, e richiede lo studio della vecchia cartografia sovietica, va negoziato fra le parti per evitare incidenti come questo. Ma a Syunik si aggiunge un fattore: vi potrebbe transitare una delle vie di comunicazione che secondo gli accordi del 9 novembre e dell’11 gennaio scorsi dovrebbero essere sbloccate. Il presidente azero Ilham Aliyev si riferisce a questa via come il corridoio di Zangezur, sulla cui realizzazione non ha alcun dubbio e che riveste una particolare importanza per il paese perché connette l’Azerbaijan con l’exclave del Nakhchivan.
La via di comunicazione dovrebbe essere sia su ruota che su rotaia, e su questo punto Aliyev sostiene che non sia nemmeno necessario negoziare con gli armeni, perché le ferrovie in Armenia sono di proprietà russa, per cui si può procedere a concordare tracciati e realizzazione direttamente con la Russia. Di altro avviso gli armeni, che sostengono che negli accordi non vi sia alcun riferimento esplicito a questa infrastruttura.
Oltre al contesto micro-regionale in cui si inserisce l’incidente, l’area oggetto della disputa territoriale ha un’altra peculiarità, cioè quella di trovarsi vicino a un bacino d’acqua, il lago Sev. Sia durante che dopo la guerra, l’Azerbaijan ha mirato a un accesso strategico alle risorse idriche. La cartografia sovietica riconosce il 30% del lago Sev all’Azerbaijan, e questo è noto e accettato da parte armena, ma la questione delle risorse idriche preoccupa soprattutto le autorità de facto del Nagorno Karabakh, che hanno scritto in merito al Gruppo di Minsk e all’OSCE .
Con il trasferimento del Kalbajar (distretto del Nagorno Karabakh) all’Azerbaijan non è più assicurata la sicurezza dell’accesso all’acqua del Nagorno Karabakh. Il 98% dell’acqua che fluisce e viene utilizzata nella piccola regione secessionista ha origine infatti nel Kalbajar e lì ha origine anche buona parte delle acque che vanno a costituire l’80% del bacino idrico dell’Armenia. I fiumi Arpa e Vorotan che sono i principali immissari del lago Sevan, si originano in Kalbajar. Ogni bacino e ogni corso d’acqua che ha cambiato bandiera, per così dire, o che si trova in possibili aree di successive ripartizioni sono nuovi obiettivi sensibili. Fra questi ovviamente anche il lago Sev e l’area circostante.
La guerra in Nagorno Karabakh è stata per lo più catalogata come un conflitto di natura politica per questioni etnico-territoriali. Il post-guerra si sta evolvendo verso un nuovo scenario conflittuale in cui l’accesso alle risorse sia idriche, sia con un potenziale infrastrutturale, stanno divenendo nuova fonte di tensione.
Il primo status quo del 1994 aveva consegnato alle parti una situazione critica ma molto chiara: Armenia e Nagorno Karabakh erano spazi contigui, e con nessuna relazione con l’Azerbaijan. Questo ha comportato nei decenni una stabilità – nella accezione negativa del termine, come una stagnazione – del quadro politico militare intorno al conflitto e un progressivo allontanamento delle comunità.
Il secondo status quo che è emerso dopo il conflitto del 2020 non ha nemmeno il lusso della stagnazione. Ci sono paesi divisi in due, confini non chiari e da un lato una forte pressione di natura economica a integrare la regione attraverso le infrastrutture, pressione soprattutto di matrice russa. Sono progetti però che non poggiano su una corrispondente integrazione delle comunità nelle aree dove si dovrebbero realizzare i progetti.
Per trent’anni, in tutte le sedi, si è ripetuto alle parti che il conflitto per il Nagorno Karabakh non doveva, tassativamente, avere una soluzione militare. Si è insistito fino a suonare come un disco rotto, che l’unica soluzione era politica e doveva essere concordata pacificamente negoziando su tutti i complessi aspetti, lasciando sospese le questioni di principio fino che una nuova coesione pacifica delle comunità coinvolte non avesse reso possibile affrontare il cuore del conflitto: l’inquadramento politico della comunità armena del Nagorno Karabakh.
Il secondo status quo è la prova tangibile che queste parole non erano vuota retorica. La negoziazione per risolvere la crisi di Syunik continua con la mediazione russa, e l’esito non è al momento scontato.