Armeni. La persecuzione in Nagorno Karabakh (Doppiozero 30.11.23)
Il sabato le strade di Yerevan sono ancora più affollate del solito. Mentre aspetto Yulia Antonyan davanti al mio albergo osservo le auto che ingorgano il viale Sayat Nova e la gente che va a passeggio o che torna a casa con le buste della spesa. Ho detto a Yulia, antropologa all’università statale di Yerevan, che avrei voluto approfittare del mio soggiorno per incontrare dei rifugiati del Nagorno Karabakh (Artsakh in armeno). Lo scorso settembre, dopo che l’Azerbaijan con un’azione militare lampo ha occupato l’intero Artsakh, tutta la popolazione armena della regione, più di 120.000 persone, temendo di essere massacrata dagli azeri, ha lascito precipitosamente le proprie case e ha trovato rifugio nella Repubblica di Armenia. La minaccia di genocidio era stata agitata da Elchin Amirbayov, rappresentante del presidente azero, all’inizio di settembre. Il governo e i media azeri conducono da anni una campagna di odio e di disumanizzazione nei confronti degli armeni, chiamandoli cani e parassiti.
Prima di sferrare l’offensiva del 19 settembre, gli Azeri, mentre i peacekeepers russi inviati da Putin stavano a guardare, hanno chiuso per nove mesi l’unico corridoio che univa l’Artsakh all’Armenia impedendo l’arrivo di carburante, gas, cibo, medicine alla popolazione stremata.
La pulizia etnica dell’Artsakh e la migrazione forzata della sua popolazione armena non hanno suscitato molto interesse in Italia e in Europa.
Ma ecco Yulia che sbuca dall’angolo di via Abovyan. Una sua collega dell’università dell’Artsakh ha accettato di incontrarmi. Andiamo a prenderla all’appartamento che un amico le ha messo a disposizione. Molti rifugiati vivono ancora in stanze d’albergo o sono stati sistemati in piccoli centri di provincia. Il governo armeno elargisce sussidi per permettere loro di pagare gli affitti, che da quando la Russia ha invaso l’Ucraina sono esplosi in seguito all’arrivo di molti fuoriusciti russi. Yulia ha preferito darle appuntamento sotto casa perché la collega ha ancora difficoltà ad orientarsi a Yerevan e si perde spesso. Si chiama Nuné Arakelyan e prima di fuggire insegnava filologia e letteratura russa all’università di Stepanakert, la capitale dell’autoproclamata repubblica dell’Artsakh, ora dissolta. Tra di loro Nuné e Yulia preferiscono parlare russo: per gli armeni d’Armenia il dialetto dell’Artsakh non è facile da capire, soprattutto se parlato velocemente. Non avendo io e Nuné nessuna lingua in comune, Yulia farà da interprete.
Ci sediamo per pranzare in un ristorante in Martiros Saryan. A inizio novembre le giornate sono ancora calde a Yerevan perciò ci accomodiamo a una tavola all’esterno. Sul marciapiede c’è un gran viavai. Nuné vuole solo un caffè. Dobbiamo insistere perché ordini un bicchiere di vino e qualcosa da mangiare. L’intervista può cominciare.
Cosa pensa che sia importante che gli italiani sappiano dell’Artsakh?
La repubblica armena d’Artsakh non è mai stata riconosciuta ufficialmente da nessuno stato. Fin dalla sua nascita nel 1991 abbiamo cercato di costruire un paese basato su uno stile di vita europeo. Benché cercassimo, malgrado tutti i problemi e tutti i limiti, di costruire un paese fondato su valori europei, siamo stati lasciati soli. Nessuno in Europa sembra aver apprezzato i nostri sforzi. Noi armeni abbiamo preservato per secoli la visione cristiana del mondo in questa regione circondata da paesi musulmani come la Turchia, l’Azerbaijan e l’Iran. È duro constatare che non abbiamo ricevuto nessun sostegno da parte dei cristiani in Europa. In questi giorni vediamo quanto appoggio e solidarietà ricevono i palestinesi da tutto il mondo musulmano. Il contrasto con il disinteresse per quanto subiscono i cristiani dell’Artsakh è grande. La popolazione armena dell’Arstakh era di 150.000 persone di contro ai sei milioni di azeri. Tutto quello che abbiamo fatto lo abbiamo fatto con il solo scopo di difenderci.
Secondo lei perché la causa armena suscita meno simpatia di altre cause, ad esempio quella palestinese?
La ragione è ovvia. Mentre noi parlavamo dei comuni valori cristiani e europei, gli azeri hanno comprato con i soldi del loro gas l’appoggio degli europei. Persino il Vaticano riceve finanziamenti dall’Azerbaijan. La fondazione Heydar Aliyev, che è guidata dalla moglie del presidente azero, Mehriban Aliyeva, finanzia da anni il restauro delle catacombe di Roma. E mentre gli armeni in Artsakh venivano uccisi, il Papa ha molto timidamente fatto un appello per la pace e il cessate il fuoco, come se armeni e azeri fossero sullo stesso piano, come se si trattasse di una guerra simmetrica.
Come potrebbe del resto l’Europa prendere posizione contro l’Azerbaijan con cui meno di un anno fa ha concluso accordi per il raddoppiamento delle forniture di gas? L’Azerbaijan è il secondo fornitore di gas per l’Italia. Il gas azero arriva in Puglia attraverso il TAP e viene impiegato per produrre poco meno della metà dell’energia elettrica delle nostre centrali. Trattative per vendere armi italiane all’Azerbaijan sono in corso da anni. Il ministro della difesa Crosetto si è recato in visita ufficiale a Baku nel gennaio del 2023, mentre gli azeri affamavano la popolazione dell’Artsakh con il blocco del corridoio di Lachin. Crosetto ha discusso con Aliyev “temi di comune interesse nel settore della difesa ed energetico (…) ha incontrato, inoltre, il Ministro della Difesa Colonel General Zakir Hasanov con il quale ha firmato un protocollo d’intenti sulla cooperazione nel campo della formazione e dell’istruzione delle Forze Armate” (così si legge sul sito del ministero della difesa).
Come è stata la vita in Artsakh durante gli ultimi tre anni, dopo la guerra dei 44 giorni del 2020?
Un ghetto. È stato come vivere in un ghetto controllato dagli azeri, dai turchi e dai russi. Siamo stati privati della nostra identità. Non sapevamo più chi fossimo. I termini Karabakh e Artsakh sono stati progressivamente eliminati dal vocabolario. L’Artsakh era diventato semplicemente “la zona dei peacekeepers russi”. Le nostre vite erano costantemente minacciate dai cecchini azeri. I contadini non potevano andare a lavorare nei campi. Tre contadini sono stati uccisi dagli azeri mentre si recavano al lavoro senza che i soldati russi intervenissero. Se sconfinavi anche solo di un metro venivi ucciso. Ma la linea di confine non era chiara. Solo l’arbitrio dei soldati azeri stabiliva se avevi oltrepassato la frontiera. All’epoca in cui Erdogan ha visitato Shushì, i soldati russi hanno assunto tre lavoratori armeni per riparare la rete idrica nei dintorni della città. Degli azeri incaricati della sicurezza hanno aperto il fuoco su di loro. Uno dei tre, un ragazzo di 22 anni, è stato ucciso, gli altri feriti.
Come erano le relazioni tra la popolazione e le forze di interposizione russe?
All’inizio i rapporti erano relativamente buoni. L’Artsakh è sempre stata tradizionalmente una regione filorussa. I soldati mostravano un atteggiamento amichevole e cercavano di tranquillizzare la popolazione. A chi chiedeva: “Siamo sicuri?” rispondevano sorridendo che finché c’erano loro non dovevano temere per la nostra sicurezza. Poi hanno cominciato a mettere gigantografie di Putin per le strade. Hanno cercato di introdurre i valori russi e l’ideologia russa. Per esempio ci hanno costretto a dimenticare le nostre guerre passate e a celebrare la grande guerra patriottica e gli eroi russi della seconda guerra mondiale. Quando gli azeri hanno visto che tra soldati russi e popolazione armena c’erano buone relazioni, hanno cominciato a protestare. Dopo le proteste i soldati russi sono scomparsi. Durante i nove mesi del blocco non si sono visti soldati russi a Stepanakert o in altri luoghi. Se ne sono rimasti chiusi nelle loro basi. L’errore che abbiamo commesso in questi trent’anni è stato di fidarci dei russi, di affidare a loro la nostra protezione, di pensare che la soluzione sarebbe venuta con il negoziato e non con le armi.
Il cambiamento dell’atteggiamento russo ha avuto a che fare con l’inizio della guerra in Ucraina?
Non lo so. Di certo abbiamo capito da subito che il conflitto russo-ucraino avrebbe avuto un impatto negativo sulla situazione in Arstakh. Ho molti parenti in Ucraina. Alla preoccupazione per la nostra situazione si aggiungeva quella per la situazione dei nostri parenti laggiù. E a loro volta loro si preoccupavano per noi.
In quanto specialista di filologia russa non trova difficile occuparsi di cultura russa in questa situazione?
Amo la letteratura russa, amo la Russia di Pushkin e Dostoevskij. Non amo la Russia di Putin.
Anch’io amo la letteratura russa, amo i poeti russi. Prima di venire qui ho riletto il Viaggio in Armenia di Mandel’štam.
Conosci la poesia “Il cocchiere”? Mandel’štam l’ha scritta proprio in Arstakh nel 1930, mentre andava da Shushì a Stepanakert in carrozza. A Shushì lui e la moglie Nadežda avevano visitato la parte armena della città che ancora portava le tracce degli incendi e delle distruzioni dei pogrom antiarmeni di dieci anni prima. Le quarantamila finestre morte di cui parla la poesia sono quelle delle case degli armeni. Guardando i volti degli azeri il poeta si chiede se tra di loro ci siano gli assassini responsabili dei massacri. Non volle trattenersi in quella atmosfera lugubre e opprimente che gli ricordava la Russia. Nel cocchiere azero che lo riportava a Stepanakert Mandel’štam riconosce un messo infernale, un bracciante del diavolo, il simbolo di chi tiene in mano il nostro destino, di chi dispone della nostra vita e della nostra morte.
E tra i clacson delle auto, il rombo delle motociclette, gli strilli dei bambini, il vociare dei passanti Nuné si mette a recitare a memoria in russo una strofa della poesia di Mandel’štam.
Così, nel Nagornyj Karabach,
nel rapace paese di Šuša,
conobbi io questi terrori
connaturati all’anima.
(Traduzione di Serena Vitale in Osip Mandel’štam, Viaggio in Armenia, a c. di S. Vitale, Adelphi, Milano 1988, p. 172).
Nel novembre del 2020, quando era chiaro che Shushì sarebbe stata ripresa dagli azeri, andai come volontaria per aiutare la popolazione armena ad evacuare la città e rifugiarsi a Stepanakert. Mi ritrovai a camminare per le strade deserte di Shushì e a recitare ad alta voce con tutto il fiato che avevo questi versi di Mandel’štam.
Restiamo tutti e tre a lungo in silenzio. Non è facile riprendere la conversazione. Vorrei sapere come ha vissuto durante il blocco, ma non voglio essere importuno e costringerla a rievocare situazioni troppo dolorose. In realtà non c’è bisogno di chiedere. Nuné spezza un altro boccone di pane e prosegue.
Da quando sono arrivata a Yerevan non faccio altro che mangiare. Mi abbuffo di pane. Durante il blocco non c’era cibo. Il pane era introvabile. I contadini non potevano mietere i campi. Circolava un pane cattivo, fatto non con la farina. Ognuno poteva ottenerne 200 grammi con la tessera annonaria. Bisognava fare lunghe file per ottenerlo. Ci si iscriveva il giorno prima attorno a mezzanotte, poi si tornava verso le tre del mattino per confermare l’iscrizione e solo la mattina il pane, se ce n’era, veniva distribuito. I soldati russi hanno trovato il modo di fare soldi con il mercato nero. Vendevano un pacchetto di sigarette iraniane che normalmente costa 1000 dram per 50.000 dram. C’era penuria di tutto: niente gas per riscaldare le case, carburante per le auto, medicine per i malati. La gente moriva in casa perché non poteva essere trasportata in ambulanza all’ospedale. Tutto mi sembra ancora così irreale, come se fosse successo in un sogno.
Siamo interrotti da una anziana mendicante che ci chiede dei soldi. Nuné apre la sua borsetta e porge alla donna un biglietto di mille dram. Yulia è indignata con la mendicante: “Ma come? Lo sai che questa signora viene dall’Arstakh e che ha perso tutto? Come osi chiederle del denaro?” La mendicante si allontana a testa bassa.
Come sono stati accolti i rifugiati in Armenia?
Molto bene. Per nove mesi non siamo stati trattati come esseri umani né da parte degli azeri che ci hanno terrorizzato né da parte dei soldati russi che ci hanno ingannato e derubato. Quando abbiamo messo piede in Armenia abbiamo ritrovato la nostra umanità. Alla frontiera c’erano persone che distribuivano cibo, acqua e medicine, che proponevano alloggi. I miei studenti si sono potuti iscrivere nelle università di Yerevan e sono stati esonerati dalle tasse di iscrizione.
Come vede il futuro? Pensa sia possibile mantenere la specificità culturale dell’Artaskh vivendo in Armenia?
Viviamo tutti nella speranza di ritornare un giorno. Aspettiamo un cambiamento della situazione geopolitica. Si potrebbe pensare a una soluzione del tipo di quella trovata in Kossovo tra la maggioranza albanese e la minoranza serba. Certo, se non dovessimo tornare, ci integreremo nella società armena e la nostra specificità culturale inevitabilmente andrà perduta. Ma non voglio pensare a questo ora. In questo momento la cosa più importante non è mantenere il nostro dialetto o le nostre tradizioni. È meglio tornare e parlare l’armeno letterario più puro a Stepanakert che continuare a parlare il dialetto dell’Artsakh a Yerevan. La cosa più importante è mantenere la presenza armena in Artsakh. È la prima volta nella millenaria storia armena che l’Arstakh non è armeno. È la prima volta che il monastero di Gandzasar, fondato nel XIV secolo, non è in mani armene.
Il patrimonio monumentale armeno dell’Artsakh è in pericolo?
La storiografia ufficiale azera considera tutti i monumenti cristiani dell’Artsakh come “albaniani” e non armeni. Questo falso mito storiografico potrebbe paradossalmente salvare i monumenti armeni. Certo, gli azeri cancellano tutte le iscrizioni armene, distruggono i cimiteri.
Passa un’auto della polizia. Il poliziotto aziona la sirena e dice qualcosa all’altoparlante in direzione di un autista che ha commesso un’infrazione. Nuné ha un sussulto. La sirena le ricorda il suono di quelle che annunciavano i bombardamenti aerei su Stepanakert. Ora non sopporta nessun rumore troppo forte.
Nessuno ha il diritto nel XXI secolo di deportare un’intera popolazione dalla propria patria, di cacciarla dalle proprie case, di distruggere le tombe dei suoi antenati. Spero che i tribunali e le organizzazioni internazionali ristabiliranno la giustizia. Abbiamo scritto centinaia di lettere alle organizzazioni internazionali, governative e non governative, all’UNICEF, a Greenpeace e ad altre organizzazioni ecologiste. Durante il blocco anche gli animali hanno sofferto per mancanza di cibo. È importante che non solo le ONG e gli organismi internazionali siano informati, ma anche l’opinione pubblica europea sappia cosa è successo. Vogliamo tornare a casa. Anche se l’Armenia è in qualche modo la nostra madrepatria e ci ha ben accolti, vogliamo comunque tornare a casa. Si sa che i soldati russi e quelli azeri stanno depredando le nostre case e portano via tutti i beni che abbiamo lasciato. Le nuove generazioni non potranno utilizzare gli oggetti fabbricati dai loro antenati, gli oggetti posseduti e tramandati dalle loro famiglie. Ho lasciato a Stepanakert tutti i miei libri. Spero solo che i russi e gli azeri siano troppo pigri per salire fino al quarto piano dove si trova il mio appartamento.
Prima di alzarci da tavola brindiamo un’ultima volta alla pace e alla possibilità di ritorno per Nuné e per tutti i rifugiati dell’Artsakh. La riaccompagniamo a casa. Ci fermiamo davanti al palazzo delle poste. Nuné ci dice che spesso ha questa fantasia, di tornare di nascosto a Stepanakert e di chiudersi in un rifugio segreto, come il protagonista del film di Polanski, The Pianist. Poi accennando un sorriso dice:
Sapete? Quando abbiamo capito che avremmo dovuto lasciare la casa e tutte le nostre cose, ci siamo scolati tutte le buone bottiglie di vino che avevamo tenuto per le grandi occasioni. Non volevamo lasciarle in mano ai russi e agli azeri. Quando sono scappata da Baku nel 1990 non c’è stato tempo nemmeno per questo. La fuga è stata ancora più precipitosa. Siamo miracolosamente fuggiti con un taxi mentre la folla tutt’attorno gridava “Morte agli armeni! Morte agli armeni!”. Sento ancora quelle grida. Ritornano nei miei sogni.
Siamo arrivati alla casa dove vive. Stringo la mano a questa donna che per due volte nella sua vita ha dovuto fuggire, che per due volte ha lasciato tutto dietro di sé. Penso al taxista che l’ha guidata fuori da Baku e mi chiedo se aveva anche lui il “volto bruciato, di uva passa” come quello del cocchiere di Mandel’štam.