Aram Chačaturjan, un ponte traballante tra lo stalinismo e la libertà creativa (Musicvoice 24.09.22)
La cosiddetta “trimurti” della musica sovietica del Novecento, formata almeno da quelli maggiormente conosciuti in Occidente sulla base di motivazioni del tutto differenti, ossia Dmítrij Šostakóvič, Sergej Prokof’ev e Aram Chačaturjan, fu tra l’altro la promotrice della nascita e della veicolazione di un movimento musicale, denominato I Titani, il cui scopo fu quello di esprimere, tramite un recupero del titanismo romantico, il desiderio di riaffermazione della singola individualità dell’artista attingendo dal grande repertorio della musica popolare e colta russa. Ma sei mai vi fu un movimento musicale composto da personalità così dissimili, se non addirittura antitetiche, questo fu proprio quello espresso dai cosiddetti Titani; questo perché se è pur vero che il movimento in questione non pose paletti o limitazioni rispetto alle necessità e ai bisogni creativi individuali, non bisogna anche dimenticare come questi tre compositori si posero di fronte alla dittatura staliniana e di come reagirono di conseguenza con la loro personalità e con la loro arte.
Se Šostakóvič fu indubbiamente quello che pagò il prezzo più alto, come ben sappiamo, per via di una scelta artistica che sovente entrò in conflitto con le direttive culturali imposte dall’eminenza grigia Andrej Ždanov, Prokof’ev fu al centro di una situazione decisamente più ambigua, dopo il suo ritorno nella madre patria, sebbene anch’egli fu apertamente accusato di formalismo da parte degli apparati culturali staliniani. Dei tre, fu sicuramente l’armeno Chačaturjan ad essere il più allineato a livello ideologico, al punto di assumere la guida della vita musicale sovietica nel secondo dopoguerra, con il beneplacito della nomenklatura. Non è però ben chiaro se tale allineamento fu frutto di una sincera condivisione ideologica della dottrina ždanoviana basata sul concetto del cosiddetto “realismo socialista”, sancito nel corso del Primo congresso degli scrittori sovietici nell’estate del 1934, oppure se per calcolata convenienza e calibrato opportunismo o, ancora, se la sua musica, votata a una sintassi spontanea, immediata, ottimistica e applicata mediante un linguaggio rigorosamente tonale, infarcito di richiami folkloristici e arricchito da sapienti contrasti timbrici, si sia così idealmente accodata a quanto ufficialmente invocato dal regime comunista.
Reputo che sia stata proprio l’immediatezza, la conseguente semplicità assimilativa della sua musica ad avere, in un certo senso, ostacolato la sua comprensione nell’ambito occidentale, unitamente a quanto invece proposto da Šostakóvič da un lato e da Prokof’ev dall’altro. Lo testimonia il fatto che di Chačaturjan siamo abituati ad ascoltare sempre le solite e famose pagine, vale a dire alcuni passaggi del balletto Gayaneh, a cominciare dall’annosa Danza delle spade, e il suo Concerto per pianoforte. E poi? E poi, tra le altre composizioni del suo ragguardevole catalogo, oltre alla musica cameristica e a quella sinfonica, c’è anche il repertorio per solo pianoforte, come ci ricorda la pianista milanese d’origine bulgara Victoria Terekiev, che con un disco pubblicato dalla Da Vinci Classics ha dato avvio alla registrazione integrale delle opere pianistiche di Aram Chačaturjan, disco che porta l’evocativo titolo di An Armenian in Moscow.
In questo primo CD, la pianista milanese presenta i Due pezzi(1926), il Poema(1927), il primo libro del Children’s Album(che va dal 1926 al 1947), la Toccata(1932), la Sonatina(1958) e la Masquerade Suite (1941-44); tale scelta è stata fatta, a mio parere, sulla base o, meglio, sull’urgenza di fornire fin da subito un quadro complessivo della musica, e non solo in chiave pianistica, del compositore armeno, il quale è stato fondamentalmente veicolato da due necessità: la spinta creativa e lo scopo didattico. Quest’ultimo è rappresentato soprattutto dal Children’s Album, la cui stesura iniziò durante gli anni di studio al Conservatorio di Mosca (dove tra gli altri studiò anche con Nikolaj Mjaskovskij) e che fu pubblicato a New York nel 1948 con il titolo di Adventures of Ivan, il cui filo conduttore è quello di uno scolaretto del quale viene raccontata musicalmente la sua quotidianità sulla scia di quanto enunciato dal romanticismo del Kinderszenen schumanniano. Questo desiderio didattico si formò nel compositore armeno ancor prima, negli anni della fanciullezza trascorsa a Tbilisi, una città nella quale, come nel resto dell’Armenia, la musica soprattutto popolare era fatta, vissuta e ascoltata con enorme partecipazione. Il bambino Chačaturjan si nutrì di tale musica e seppe condensarla in seguito, immettendo con moderazione tali pulsioni popolari, distillandola e centellinandola all’interno del suo linguaggio efficacemente tonale. Nei brani dell’album in questione si nota, inoltre, anche un altro aspetto eminentemente “didattico”, quello relativo all’esplorazione della scrittura contrappuntistica, la cui conoscenza è di fondamentale importanza, e questo Chačaturjan lo sapeva assai bene, per poter acquisire una solida base di comprensione della struttura musicale, sia in fase di interpretazione, sia in quella relativa alla composizione.
L’incontro o, per meglio dire, il bilanciamento tra pulsioni popolari e la loro trasformazione in un linguaggio musicale classico, si può notare anche in quello che probabilmente rappresenta il risultato migliore in ambito pianistico del compositore armeno, vale a dire la Toccata, uno dei suoi pochissimi brani che vengono oggigiorno affrontati in sede concertistica. Non bisogna lasciarsi sviare dal fatto che anche questo pezzo nacque come banco di prova didattico a favore degli allievi, visto che ci troviamo di fronte a una composizione la cui chiarezza tecnica permette di valorizzarne il notevole bilanciamento di cui si è accennato. Giustamente, Victoria Terekiev in questo disco ha inserito anche i Due pezzi risalenti al 1926, ossia creati sei anni prima della Toccata, in quanto originariamente questi tre brani avrebbero dovuto confluire all’interno di una Suite; ma ascoltando il Valzer-Capriccio e la Danza, si comprende il perché di questa scelta operata da parte di Chačaturjan, tenuto conto che questi due pezzi, sebbene validamente strutturati, non vantano la medesima qualità compositiva, la medesima densità di scrittura dimostrate dalla Toccata.
Anche se non rientra nel genere squisitamente didattico, il Poema, composto dal musicista armeno all’età di ventiquattro anni, è un brano che inevitabilmente guarda più al passato che al presente, tenuto conto delle sue velleità di voler ricostituire una concezione pianistica fatta in nome di Aleksandr Skrjabin. Da qui un impianto tipicamente tardo-romantico, in cui abbondano colori e sfumature timbriche, ma in cui manca ancora un DNA personale, un preciso marchio di fabbrica, una visione che dev’essere ancora acquisita.
Una visione non solo musicale, ma anche estetica, che Chačaturjan seppe poi fissare non certo nel repertorio pianistico, ma nel genere del balletto, del quale il nostro autore ha rappresentato una delle voci più importanti del Novecento storico, trovando in esso il punto di massimo equilibrio tra espressione artistica e compiacimento ideologico da parte della nomenklatura sovietica (ciò fu raggiunto soprattutto con due titoli che hanno fatto storia, Spartacus, da una parte, e il già citato Gayaneh dall’altra). In realtà, i movimenti di danza che contraddistinguono Masquerade non furono concepiti per un balletto, ma come musica di scena per un’opera teatrale del poeta romantico Michail Lermontov, concepita nel 1835 e conosciuta in Italia con il titolo di Un ballo in maschera. La prima di Masquerade avvenne il 21 giugno 1941 al Teatro Vakhtangov di Mosca, esattamente un giorno prima che l’esercito tedesco scatenasse la campagna di Russia, tramite la famosa “Operazione Barbarossa”, invadendo il territorio sovietico. Il brano più celebre, ripreso anche nella Suite pianistica qui presentata, è sicuramente il Valzer di apertura, il quale nella sua trasognata e struggente bellezza sembra quasi celare un monito, un rimpianto che annuncia l’inizio di una terribile catastrofe. Ma non sono da sottovalutare, nel loro sviluppo tematico e ritmico, anche gli altri quattro brani che compongono la Suite pianistica, ultimata nel 1944.
Da ultimo, almeno per quanto riguarda il programma di questo primo disco, il ritorno al côté “didattico”, rappresentato dalla Sonatina, ancora una volta concepita per gli studenti di musica e dedicata agli alunni di una scuola elementare di musica di Prokop’evsk, nella Siberia sudoccidentale, quando ormai, siamo nel 1958, Chačaturjan era di fatto il deus ex machina musicale del regime sovietico. La base strutturale richiama quello della Toccata, per via di una brillantezza che ormai dimostra la piena consapevolezza dei mezzi espressivi acquisiti dal compositore armeno; una consapevolezza che gli permette di elaborare una scrittura in cui l’elemento tecnico-didattico viene spalmato, diluito in un efficace costrutto tematico, in modo da soddisfare sia le richieste di apprendimento da parte degli allievi, sia il bisogno esecutivo da parte dell’interprete.
Al di là dell’encomiabile decisione di voler proporre un repertorio (ingiustamente) “dimenticato” (perfino Piero Rattalino nella sua esaustiva Guida alla musica pianistica non dedica nemmeno una riga alle opere per pianoforte di Chačaturjan), con un’operazione discografica oltremodo coraggiosa, ciò che colpisce è il tipo di lettura che Victoria Terekiev riesce a fare di queste pagine. Se esiste un possibile denominatore che accomuna il repertorio pianistico del compositore armeno, questo è dato da un sottile senso di irrequietezza, un filo elettrico perennemente attraversato da una tensione che si avverte “interiormente” anche nei momenti più elegiaci, più teneri. Quindi, un pianismo in continua mutazione umorale, il quale dev’essere reso attraverso un prisma interpretativo mai fissato, scolpito nell’arcata generale, ma tradotto in una pletora di segmenti la cui tessitura e la cui espressività devono essere decodificate mediante un sismografo il cui pennino intinto nella sensibilità è sempre in movimento. Ed è appunto quanto riesce a fare la pianista milanese, la quale ha anche la capacità, e ciò rende ancor più prezioso il suo progetto discografico, almeno sulla base di questo primo CD, di rendere mirabilmente omogeneo, nella sua unità, ogni brano qui affrontato.
Che nelle sue vene il sangue slavo che vi alberga abbia fornito un mix irresistibile e ineludibile di rimpianto, nostalgia, vitalismo, slancio e un pizzico di sana follia, va ad aggiungere valore al valore, perché solo in questo modo il pianismo slavo in generale e quello di Aram Chačaturjan in particolare possono essere resi dolcemente e magneticamente fibrillanti, come appunto riesce a fare splendidamente Victoria Terekiev. Se il buongiorno si vede dal mattino, allora prepariamoci ad altri, futuri gioielli dedicati da lei al compositore armeno.
Anche la presa del suono effettuata da Fabio Venturi, con i suoi pregi, ha il merito di valorizzare ulteriormente il dato artistico della registrazione; la dinamica mette in risalto la bontà timbrica dello Yamaha CFX usato da Victoria Terekiev, con la giusta energia e con una notevole naturalezza. Il palcoscenico sonoro ricostruisce adeguatamente al centro dei diffusori lo strumento, che appare leggermente avanzato rispetto all’ascoltatore, fissandolo all’interno dello spazio fisico dell’evento sonoro. Anche l’equilibrio tonale e il dettagli sono rilevanti, con il primo sempre molto pulito e corretto negli scontorni tra il registro medio-grave e quello acuto, e con il secondo oltremodo materico, capace di fornire un’apprezzabile tridimensionalità del pianoforte.
Andrea Bedetti