Antonia Arslan: «Le voci ritrovate degli Armeni uccisi» (Ilpiccolo 05.07.17)
La notte del 24 aprile 1915 è un momento della Storia che il popolo armeno – ma, dovremmo dire meglio, il mondo intero – non scorderà mai. Quella data segna infatti l’inizio del genocidio di un popolo che, dopo essere stato per secoli senza uno Stato e un preciso territorio, da alcuni decenni stava sognando il ricostituirsi della propria identità anche in senso politico, oltre che culturale. In quella notte, attraverso una capillare operazione di polizia, vengono arrestati a Costantinopoli i principali esponenti della comunità armena nell’impero ottomano. Tra loro, diversi scrittori, poeti e giornalisti, che verranno uccisi nei giorni successivi. A lungo i loro nomi sono stati dimenticati, rimossi come la realtà stessa del genocidio, il primo della Storia del Novecento, che anticipa tragicamente la Shoah del popolo ebraico.
Ora i profili di quegli autori riemergono dal passato in una raccolta di testi pubblicati dalle Edizioni Ares: “Benedici questa croce di spighe… Antologia di scrittori armeni vittime del Genocidio” (a cura della Congregazione armena mechitarista, Suren Gregorio Zovighian, Hamazasp Kechichian, pp. 240, euro 18,00). A firmare l'”invito alla lettura” che fa da introduzione al volume è Antonia Arslan. Già docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova, di famiglia di origini armene, come narratrice si è occupata dell’identità e della Storia del popolo armeno già a partire dal suo romanzo d’esordio, “La masseria delle allodole” (Rizzoli 2004, premio Selezione Campiello).
«Come una folgore improvvisa che taglia in due un paesaggio – afferma Antonia Arslan – come un terremoto inaspettato che apre voragini e scuote ogni cosa costruita dall’uomo, così siamo abituati a immaginare l’inizio del genocidio degli armeni. Oggi, attraverso il recupero delle opere degli scrittori assassinati, essi possono tornare a essere personaggi reali, protagonisti del racconto infinito di quella tragedia incombente che venne realizzata giorno dopo giorno, con l’astuzia di tenere i prigionieri all’oscuro del loro destino».
Nel libro ora pubblicato da Ares le voci degli autori armeni della generazione vittima del genocidio – decretato, ricordiamolo, dal partito dei Giovani Turchi – vengono offerte per la prima volta ai lettori italiani. Sono autori assai differenti fra loro. Diverse sono le date e i luoghi di nascita, la provenienza familiare, gli studi, le vocazioni e le carriere professionali: poeti e autori di romanzi e novelle, giornalisti, medici, farmacisti, uomini di Chiesa, politici. I loro nomi: Daniel Varujan, Siamantò, Rupen Sevag, Garabed der Sahaghian, Ardashes Harutiunian, Krikor Zohrab, Rupen Zartarian, Dikran Ciögürian, Tlgadintzì, Hrant, Yerukhan, Kegham Parseghian. Tutti accomunati, scrive Antonia Arslan, «dall’amore per una patria divisa, drammaticamente minacciata, con forti differenze sociali al suo interno, eppure unita da un maestoso, articolatissimo linguaggio dalle antiche radici indoeuropee, da un alfabeto unico e originale e da una superba tradizione culturale, che si sviluppa con grande ricchezza a partire dal IV secolo d.C.».
Professoressa Arslan, quali sono i tratti caratteristici di questi autori?
«Diverse sono le personalità, ma in comune hanno una sorprendente apertura alla cultura europea, in particolare francese, ma anche italiana, persino quella più recente: un narratore come Hrant, ad esempio, legge in tempo reale le ultime opere di Edmondo De Amicis e di Matilde Serao, a cui si ispira da vicino per la composizione dei suoi racconti. C’è poi il senso profondo di un’identità di popolo ormai senza uno Stato territoriale da diversi secoli, precisamente dal 1375, quando cadde il Regno armeno di Cilicia. Ma tutti hanno un forte radicamento nella tradizione culturale armena».
Come mai questa attenzione all’Italia e alla sua letteratura?
«Perché nel secondo Ottocento gli armeni vivono una nuova primavera culturale, che si apre alla fiducia nella possibilità di creare una nuova entità nazionale. E così vedono nel Risorgimento italiano un modello a cui ispirarsi, pur nelle sostanziali differenze tra le due situazioni: da una parte, gli italiani, una nazione divisa in più Stati; dall’altra, gli armeni, un popolo inglobato in un impero, quello ottomano, che non consente una piena affermazione della loro specificità di popolo. Di fatto gli armeni non aspiravano all’indipendenza, ma a spazi di autonomia che consentissero adeguate possibilità di espressione. In ogni caso, si spiegano così l’ammirazione per un personaggio come Giuseppe Garibaldi o per uno scrittore come Antonio Fogazzaro».
Nell’antologia ora pubblicata troviamo soltanto autori uomini. Come mai?
«Donne armene che scrivevano in quegli anni c’erano, eccome. Ma la maggior parte delle scrittrici si sono salvate dal genocidio, mentre gli scrittori no. Questo perché gli uomini furono sterminati subito, le donne, invece, deportate. Qualcuna di loro riuscì a fuggire, spesso in modo rocambolesco. Come Zabel Yessayan, che scappò per i tetti, riuscendo a fuggire prima in Bulgaria e poi in Unione Sovietica, dove però, accusata di “nazionalismo” e arrestata nel 1937, morirà in quello stesso anno in circostanze oscure».
Che cosa si è perso con la sparizione di un’intera generazione di scrittori e intellettuali armeni vittime del genocidio?
«È venuto meno un formidabile ponte tra Oriente e Occidente, la possibilità di continuare quel dialogo tra culture diverse che gli armeni da sempre avevano coltivato».
Come descriverebbe il carattere del popolo armeno?
«Nell’antichità gli armeni erano contadini, poi diventarono artigiani e commercianti. Una volta mi è capitato di definire il loro carattere come “mite e fantasticante”: sono sempre stati persone dolci ed educate, caratterizzate da una certa ingenuità, intesa come spontaneità di cuore. Sono elementi che, insieme a un’attitudine fantasticante e sensuale, ritroviamo anche nei testi letterari antologizzati in questo volume. Inoltre gli armeni hanno un forte senso della famiglia, una famiglia allargata che comprende gli anziani e i vicini. Non una famiglia patriarcale, però, perché le donne non hanno mai subìto la figura del “padre padrone”. All’inizio del Novecento erano moltissime le donne armene che si diplomavano nelle scuole superiori, segno di un’emancipazione femminile che testimoniava l’alta considerazione in cui erano tenute nella società».
Un’ultima domanda, che riguarda Antonia Arslan: qual è il suo rapporto con Trieste?
«Un rapporto molto intenso, forse proprio perché anche Trieste, come il popolo delle mie origini, ha questa caratteristica di fare da ponte tra culture diverse. Venivo a Trieste fin da bambina ospite di due mie prozie suore. Ricordo il bellissimo giardino del loro istituto, che per me era una sorta di paradiso terrestre, perché le zie mi lasciavano fare quello che volevo. Poi mi portavano a passeggio per la città, che allora aveva per me il fascino dell’ignoto. Peciò per me da allora Trieste è rimasta sinonimo di libertà, evasione, avventura».