Antonia Arslan, i vent’anni del best-seller «La Masseria delle Allodole»: «Sono stata più volte minacciata ma non mollerò» (Coriere del veneto 24.08.24)
Nuova edizione del libro a settembre e cinque eventi per il ventennale. «Ho un sogno, irrealizzabile: rivedere il mio Karabakh, la sua gente operosa, le montagne e il monastero di Dadivank»
In una bella casa sulle colline dell’Anatolia, nel maggio 1915 i turchi sterminarono uomini e bambini armeni e trascinarono le donne in Siria, a morire per fame, malattia, sfinimento tra marce, violenza e campi di prigionia. Antonia Arslan, scrittrice padovana di origine armena, ha fatto conoscere questa storia, che è anche quella della sua famiglia, nel libro best-seller «La Masseria delle Allodole» (Rizzoli), che compie vent’anni dalla pubblicazione. Da allora, il suo impegno per testimoniare il genocidio armeno non si è mai fermato. Rizzoli ripubblica «La Masseria delle Allodole» e cinque eventi celebrano Antonia Arslan e il libro, tributo alla scrittrice, voce del popolo armeno: l’1 settembre a Calalzo in sala consiliare (ore 18). Due gli appuntamenti alla grande festa del libro di pordenonelegge, il 17 settembre a Udine nella Fondazione Friuli (ore 18) e il 18 settembre a Pordenone, al PalaPaff (ore 10.30), in entrambi Arslan sarà in dialogo con Gian Mario Villalta, scrittore e direttore artistico di pordenonelegge. Il 28 settembre a Treviso nella chiesa di San Francesco (ore 16.30). E il 6 ottobre a Padova per La Fiera delle Parole, omaggio alla scrittrice al Centro Culturale San Gaetano (ore 11) con il reading dal romanzo delle attrici Federica Santinello e Laura Cavinato.
Antonia Arslan, vent’anni dopo l’uscita del libro «La Masseria della allodole», che attualità conserva la storia?
«Quella storia è purtroppo ancora attualissima. La piccola e povera Armenia è sotto minaccia di annientamento culturale e anche umano, dopo che l’Azerbaigian, alleato della Turchia, ha invaso e fatto sparire la piccola repubblica del Nagorno Karabakh, abitata da 120mila armeni, che sono fuggiti tutti in 3 giorni. Lì ci sono stata varie volte, era abitato da tribù armene da migliaia di anni. Oggi, il governo azero dichiara che tutta l’Armenia è “Azerbaigian occidentale (Western Azerbaijian)”».
Nella nuova edizione del romanzo, ci saranno modifiche?
«A settembre ci sarà una fascetta speciale. Una nuova edizione con una mia prefazione dopo vent’anni uscirà invece in una collana speciale a inizio 2025. Non ci saranno modifiche nel testo, forse solo nei ringraziamenti».
Il suo nonno paterno, Yerwant Arslanian (che nel 1923 ha fatto italianizzare il cognome in Arslan), le raccontò quanto accadde in Armenia: la famiglia spazzata via dalla violenza turca. Che memoria conserva di quelle confidenze?
«È una memoria composta di tanti ricordi fissati nella mia mente e circondati come di un’aura dorata. Intangibili ma ancora vividi, che non interagiscono con gli altri ricordi, ma in qualche modo li arricchiscono».
Dopo l’uscita di «La Masseria delle allodole» e il successo in tutto il mondo, tra le tante presentazioni, c’è una storia, un incontro, che le è rimasto impresso?
«Diversi. Se ci penso, ho dei flash sulle sale di alcuni piccoli paesi dove la gente si è commossa fino alle lacrime, poi mi hanno scritto, cercato, hanno fatto leggere il libro nelle scuole, scritto poesie. E tanti hanno deciso di andare in Armenia, hanno fatto fotografie, mangiato il cibo locale… La più emozionante, però, è stata la presentazione ufficiale del romanzo davanti al Congresso degli Stati Uniti».
Il genocidio armeno cosa insegna al mondo contemporaneo?
«Il passato non insegna, purtroppo. La storia non è magistra vitae. Tuttavia, ho sempre pensato – e spesso ne ho parlato – che la tragedia degli armeni risiede anche (e forse soprattutto) nell’occultamento immediato dei fatti e nella complicità, nel silenzio delle potenze vincitrici dopo il Trattato di Losanna del 1923. E’ questa la grande differenza con la Shoah ebraica».
Se dovesse scrivere oggi «La Masseria delle allodole», cambierebbe qualcosa?
«Sarò franca, neanche una parola. E l’ho riletto con molta attenzione».
Dopo la Masseria e con tanti altri romanzi, è diventata voce nel mondo del popolo armeno. Com’è cambiata la sua vita?
«Molto. Già nell’estate del 2004 la Masseria ha cominciato a ricevere tanti premi letterari, dal Berto Opera Prima al Fenice Europa, dal Manzoni allo Stresa, dalla Selezione Campiello al Fregene, in tutto più di 20. Una tendenza continuata negli anni successivi, fino al Premio Serao a Napoli e al recente Comisso a Treviso e sono stata finalista al Los Angeles Times e a Dublino. Ma la cosa che davvero mi ha cambiato la vita è stato l’instancabile passaparola di lettrici e lettori, continuato con inviti a ripetizione, ancora adesso, dappertutto in Italia e all’estero, dalla Svezia alla Russia, dall’Irlanda al Regno Unito alla Svizzera alla Francia agli Usa, dalla Romania alla Bulgaria alla Grecia al Libano».
Per il suo impegno a favore dell’Armenia e per la verità che da sempre persegue, è stata minacciata. Ha pensato di mollare?
«No, mollare mai. Ma ho avuto curiose avventure di boicottaggi perfino ridicoli, come in Germania dove l’editore annullò un viaggio programmato con la scusa che non trovava una stanza d’albergo per me. Ma il boicottaggio più pesante fu esercitato contro il film dei fratelli Taviani: si erano preparati ad impedirne la circolazione in diversi paesi, fra cui gli Usa. E purtroppo così è avvenuto».
Cosa sta accadendo oggi in Nagorno Karabakh?
«In sostanza, nella generale distrazione dell’intero Occidente, è calato un vergognoso silenzio sulla conquista del territorio del settembre 2023, la fuga in massa degli abitanti e l’attuale de-armenizzazione completa, in corso, anche attraverso una campagna ben orchestrata di menzogne storiche».
Nel settembre 2023 infatti l’Azerbaigian ha nuovamente attaccato e più di 100mila persone sono state costrette all’esodo…
«Stanno abbattendo le croci antiche dappertutto, i famosi katchkar, demolendo le chiese e ogni traccia armena. Nella capitale hanno cambiato i nomi delle strade, dando ad esempio il nome di Enver Pascià, uno dei tre principali responsabili del genocidio del 1915».
Perché si parla di genocidio nella Striscia di Gaza?
«Per ignoranza del senso preciso del termine “genocidio”, come da definizione dell’inventore del termine Raphael Lemkin nel 1944, confermato solennemente dall’assemblea dell’Onu del dicembre 1948, che si riferisce a quando un governo decide di eliminare una parte della propria popolazione che ritiene indegna, come è successo con gli ebrei. E anche in Ruanda e in Cambogia».
Anche a proposito della guerra in Ucraina, dove sono stati sterminati bambini e civili si parla di genocidio.
«Ci sono superficialità e incompetenza a tutti i livelli, talmente diffuse… Sembra che usare la parola genocidio faccia più effetto, ma è un fraintendimento voluto. È una strage orrenda, ma non è genocidio. L’intento finale non è sterminare l’intero popolo, secondo il significato di genocidio, ma è il dominio».
Cosa potrebbe aiutare la pace?
«Noi, gente comune poco possiamo fare. Ma una cosa è possibile: abbassare i toni dei conflitti verbali che impazzano, giornali e social compresi».
Il più grande desiderio?
«Il mio più grande desiderio in questo momento è la guarigione della mia carissima amica ammalata. E poi ho un sogno, irrealizzabile: rivedere il mio Karabakh, la sua gente operosa, le montagne e il monastero di Dadivank, uno dei luoghi più spirituali del mondo».