Akram Aylisli rompe il silenzio dopo cinque anni: «La mia voce libera» (Corriere della sera 08.12.20)
Oggi, in questi mesi di angosce, va oltre. «Ogni governo dice che tiene ai propri interessi nazionali. Non ci può essere niente di più dannoso. Ma quali interessi nazionali? Con questa pandemia poi non sappiamo dove sbattere la testa. E questo eccesso di amor proprio sta distruggendo l’umanità: l’idea che “il mio Paese è il più importante di tutti, il mio popolo è più grande degli altri”. Ecco, il vuoto genera pensieri del genere. Di quali interessi stiamo parlando? È tutto uno slogan, tutto un proclama: “Difendo l’interesse nazionale!”. A me pare una parodia, un’offesa in faccia a Dio, alla natura, all’umanità».
Sta pagando cara questa sfida ai nazionalisti, l’autore di Sogni di pietra, dove narrava dei massacri contro gli armeni commessi nel paese degli avi (Aylis, nell’attuale exclave azera di Naxcivan) e più di recente in Azerbaijan. E lo racconta, sia pure in remoto, alla presentazione di Farewell, Aylis, «Addio Aylis», la trilogia uscita oltre due anni fa negli Usa e tradotta dalla poetessa Katherine E. Young. Trilogia che raccoglie appunto, con Yemen e Un fantastico ingorgo, quel magnifico libro mai tradotto in azero e edito la prima volta in Occidente nel 2015 da Angelo Guerini.
Di fatto è un prigioniero senza sbarre: «Nei miei confronti è stato disposto il divieto di espatrio. Non ho il diritto di lasciare Baku. La Procura mi ha ritirato la carta di identità e senza quella una persona è privata di tutti i diritti civili: non può partecipare alle elezioni, non può partecipare a un bel niente… Per legge aveva un anno di tempo, la Procura, per esaminare il mio caso. Ma pur essendo iniziato nel marzo 2016 il mio caso non è ancora stato esaminato». Di più: «Mi hanno tolto la sovvenzione presidenziale, la borsa assegnata dal presidente, il titolo di “scrittore del popolo”, tutti i riconoscimenti che avevo. Non poter uscire da Baku, privato dei documenti, mi fa male, malissimo… Anche sotto il profilo psicologico».
Cocciutamente inseguita dall’Harriman Institute della Columbia University (mai scoraggiata dalla cancellazione di altri appuntamenti online al punto di apparire ormai impossibile), lo sfogo è di fatto un’intervista collettiva in remoto con la traduttrice («Sono racconti pieni di realismo magico con un pizzico di folklore popolare, di “saggezza da villaggio”, moltissima ironia…»), il giornalista azero di Amnesty International a Washington Alex Raufoglu e il coordinatore del dibattito e delle domande dei lettori Mark Lipovetsky, docente negli atenei americani e autore di molti libri sulla cultura russa.
La libertà in questi tempi di clausure? «Non ho percepito queste privazioni perché di fatto non ricordo un momento in cui sono stato una persona libera, non mi sono mai sentito così: né a scuola, né all’università, né al lavoro. Un minimo di libertà l’ho sentita soltanto quando stavo alla scrivania. Quella libertà no, non me l’hanno tolta. Non possono toglierla a nessuno scrittore. Lo sapete bene quanto hanno terrorizzato gli scrittori sovietici, io me lo ricordo eccome, ma lo accetto, lo prendo come il mio destino, non certo come qualcosa di accidentale».
La letteratura? «Vivo di letteratura, perché in effetti di letteratura si può vivere. Dentro la letteratura c’è molto ossigeno, moltissimo. Forse più che là fuori, soprattutto in questo periodo di pandemia». Le accuse d’aver tradito la patria? «Vivo qui da sempre, e già dai tempi dell’Urss si diceva che tutti i miei libri, o molti, facevano danni all’Azerbaijan, al mio paese. Ma ci si abitua. Se per un solo secondo avessi creduto di aver davvero offeso con Sogni di pietra il popolo azerbaigiano, non avrei retto un giorno. Ma ero sicuro che non stavo offendendo il mio popolo: lo stavo aiutando. Se non ci credono cosa posso farci? Urlare a destra e a manca, come hanno fatto loro, di tagliarmi un orecchio? Sogni di pietra non l’ho scritto per gli armeni, ma per gli azeri. È nato dal desiderio che non crollassero tutti i ponti tra i nostri due popoli. È vero, siamo un popolo di origine turca però siamo un popolo caucasico, la nostra mentalità è caucasica. Non è turca né mediorientale: è caucasica. E la distruzione di queste radici dei popoli è peggio di una bomba atomica».
Chi ha preso le sue difese in Azerbaijan? «In generale gli intellettuali russi… Andrej Bitov, Viktor Erofeev…». Ma in Azerbaigian? «Soprattutto giovani letterati. C’è gente che capisce. Gli azeri sono un popolo tollerante, non cattivo. Non penso in realtà che nessun popolo possa essere cattivo o buono, gli azeri sono come tutti gli altri. Ci sono i buoni, i cattivi, quelli legati al potere. L’Unione degli scrittori per esempio… Ecco, loro no, non mi hanno ovviamente difeso».
Si aspettava più aiuti dall’estero? «E come potreste aiutarmi? Lo state già facendo, sono qui seduto e vi guardo nello schermo, vedo persone luminose e questa gioia mi basta, almeno per qualche giorno. Concretamente non saprei, molte organizzazioni volevano aiutarmi. La Norvegia mi ha offerto buone condizioni per trasferirmi lì, ma ho detto no perché qui prima o poi capiranno che io sono molto più azero di loro».
La sconfitta armena nel Nagorno- Karabakh? «Vede com’è finita. Il popolo armeno è traumatizzato. Vorrei che questo trauma scomparisse il più in fretta possibile, perché il popolo armeno resista con orgoglio e non si disperi. Ora, non voglio usare le parole del potere, ma anche gli azeri erano in grande disagio quando zone intere, grandi zone, erano sotto il controllo degli armeni. Vede, una cosa chiama l’altra, dal male si genera male…».
Com’è cresciuto tanto odio? «Odio… conosco pochi armeni che nutrano odio nei confronti degli azeri e neanche i miei migliori amici azeri odiano gli armeni. Ci sono momenti in cui è come se tutto ciò che c’è di positivo si ammutolisse e vengono in superficie persone la cui l’anima è intrisa d’odio. Ma la cultura ci ha uniti e continuerà a farlo, spero. Speranze nei politici non ce ne sono, la sola speranza è riposta nei valori eterni: la cultura, i nostri canti, le nostre danze… Del resto la cultura è fatta di una materia ben più solida della politica. La politica è transitoria, la cultura no».
Gli errori degli armeni? «Penso che non avrebbero dovuto seguire i politici in questo fanatismo patriottico che, in alcuni armeni non è certo da meno rispetto al fanatismo dei nostri leader azeri. Questo è un grande ostacolo alla risoluzione dei conflitti… In Armenia tantissime persone vorrebbero che l’Azerbaijan fosse un Paese meraviglioso culturalmente avanzato e dall’altra parte non credo che ci siano azeri che non vorrebbero veder l’Armenia risollevarsi e risolvere i suoi problemi. Ma non so, parlo in modo confuso… Sono sopraffatto dalle emozioni… Queste fratture, per me, sono personali».
Ragioni, torti, anime caucasiche: «Nei nostri modi di vivere c’è tantissimo in comune. Arrivo a dire che non esiste un popolo più simile e vicino a noi azeri di quello armeno. Azeri e armeni erano vicini, vicinissimi. Se un armeno incontra un azero gli chiede “sei turco o armeno?” e un azero chiederebbe a un armeno: “Sei turco o armeno?”. Voglio dire, anche fisicamente è difficile distinguerci».
Ma come dimenticare, in questa terra impastata nei secoli da popoli così prossimi e così lontani, certi silenzi? «Non so se uno scrittore armeno abbia scritto, per esempio, del massacro di Khojaly (contro gli azeri, ndr). Alcuni eventi, come appunto quella strage o il pogrom di Sumgait (contro gli armeni), non sono mai stati chiariti e qualcuno non vuole che sia fatta chiarezza una volta per tutte. Credo non ci sia una persona al mondo che abbia veramente capito che cosa è successo là. A Sumgait e a Khojaly che cosa accadde?».
C’è forse un po’ di rimpianto per i tempi in cui il Caucaso, («quel minuscolo pezzetto di terra sul pianeta») era una parte dell’impero sovietico multinazionale? «C’erano molte cose positive, per me, in Urss. Sono cresciuto in un villaggio, mio padre è morto al fronte. Mia madre, una giovane donna, era sola, con tre figli. Tutti e tre abbiamo potuto studiare, io sono andato a Mosca. Provi a pensare se adesso, da qui, qualcuno può andare da qualche parte a ricevere un’istruzione superiore: ora è impossibile. Ci aspetta un’ondata di analfabetismo, qui in Azerbaijan. Certo, forse i figli di qualche oligarca o funzionario studiano a Londra, o New York, ma non è gente del popolo. Ai tempi dell’Urss invece una persona comune poteva emergere. Ora no. È un mondo di trafficoni…».
Del resto, da quando il fanatismo nazionalista di Satana ha infettato tante parti del mondo… Eppure, dalla sua prigione senza sbarre nel Caucaso, Akram Aylisli manda via web parole di speranza: «Vi auguro la felicità e la salute, non ammalatevi in questa pandemia e state lontani dal male, in ogni sua forma. Tenete duro».
Bibliografia: le tragedie che il Caucaso ha vissuto nel Novecento
Un testo importante sulle tragedie vissute dal Caucaso, per via dei nazionalismi esasperati contro i quali si è battuto Akram Aylisli, è il saggio di Taner Akçam Killing Orders, appena edito da Guerini e Associati a cura di Antonia Arslan (traduzione di Vittorio Robiati Bendaud e Alice Zanzottera, pagine 288, e 25). Il libro analizza una serie di documenti per dimostrare che non è possibile negare i propositi omicidi del governo turco verso gli armeni nel 1915, quando cominciò lo sterminio di un milione di persone. Sul conflitto tra armeni e azeri: Paolo Bergamaschi, Nagorno-Karabakh, la tregua fragile(Infinito Edizioni, 2018); Natalino Ronzitti, Il conflitto del Nagorno-Karabakh e il diritto internazionale (Giappichelli, 2014).