Aids in Armenia: sieropositivi condannati allo stigma (Osservatorio Balcani e Caucaso 29.04.20)
Vi sono diverse migliaia di persone sieropositive in Armenia oggi. Ma, nonostante sia noto che la malattia non si trasmette attraverso le vie aeree o il semplice contatto, vengono spesso isolate. Chi ha contratto l’Hiv è costretto così a nascondersi e tacere il problema
“L’Hiv può essere trasmesso durante rapporti sessuali non protetti, quando si scambia una siringa o un ago, quando si usa uno strumento non disinfettato, può essere trasmesso durante una gravidanza dalla madre infetta al bambino, durante il parto e l’allattamento, oppure con trasfusione di sangue infetto o dei suoi componenti”, Karen di 45 anni (il nome è di finzione), residente a Yerevan, sieropositivo da 10 anni, inizia il suo racconto con fatti duri, dicendo che è stanco dell’opinione distorta della società, che l’infezione può essere trasmessa ad esempio bevendo acqua dalla stessa tazza o con una semplice stretta di mano.
“L’anno era il 2010, mi sentivo costantemente debole, ero in una situazione che non capivo. Ho cercato informazioni su varie malattie su Internet, ho pensato di avere un tumore, poi finalmente ho capito che dovevo fare un esame medico. Quando ho sentito la diagnosi, ho pensato al suicidio. Non ho pensato ad altro che a morire. Ho capito che non sarei stato in grado di sopportare gli atteggiamenti nei miei confronti delle persone”, dice l’uomo.
Karen osserva che molti cittadini armeni, così come i residenti di molti altri paesi del mondo, hanno un’idea sbagliata di questa malattia: per questo motivo sta cercando in ogni occasione di informare il pubblico su quali siano i mezzi di trasmissione dell’infezione, e quali invece no.
“Gli psicologi hanno lavorato con me per un bel po’ di tempo, ne ho passate tante, fino a quando non sono stato in grado di accettarmi così come sono. Ho però un problema: nascondo il mio nome perché non voglio mettere in pericolo mia moglie. So che molte persone nella comunità finirebbero per non accettarla, indipendentemente dal fatto che sia infetta o meno”.
Secondo i dati del Centro repubblicano armeno per la prevenzione dell’Aids, dal 1988 al 31 gennaio 2020 sono stati registrati in Armenia 3825 casi di Hiv, di cui 448 nel corso del 2019. 2653 (69%) sono maschi, mentre 1172 (31%) sono femmine. 63 casi (1,7%) di infezioni da Hiv sono stati registrati tra i bambini.
Circa la metà dei sieropositivi, il 50,5%, aveva un’età compresa tra i 25 e i 39 anni al momento della diagnosi.
Le principali vie di trasmissione dell’infezione da Hiv in Armenia sono rapporti eterosessuali (72%), uso di droghe iniettabili (19%). Inoltre, sono stati registrati casi di trasmissione dell’Hiv tramite rapporti omosessuali, da madre a figlio e attraverso trasfusioni di sangue.
Il numero più alto di casi di Hiv è stato registrato tra i residenti di Yerevan – 1161 casi, che rappresentano il 30% della totalità. La regione di Shirak è al secondo posto, con l’11.3% (433).
“Forse la frase più atroce che abbia mai sentito in vita mia è stata quella che mi comunicava la diagnosi della mia sieropositività. Mio marito mi ha contagiato con l’Hiv ed è morto”, racconta la 37enne Gayane (il nome è di finzione).
Gayane vive a Gyumri, la seconda città della Repubblica. Porta il peso sia del silenzio sulla causa della morte di suo marito che della sua malattia. Racconta che anche se non vivono in una piccola città, anche il destino dei loro figli potrebbe essere terribile se qualcuno dovesse venire a sapere della sua sfortuna personale. “Sto crescendo due figlie. Per fortuna non sono state contagiate, ma non posso bussare alla porta di tutti e raccontare della mia malattia, della genetica e della trasmissione delle infezioni. Se qualcuno scopre che ho un problema le mie figlie saranno condannate alla solitudine”.
Gayane viene sottoposta ad esami medici e cure farmacologiche presso un centro specializzato di Yerevan. Racconta che il giorno in cui deve andare nella capitale, trova sempre qualcosa da dire alla famiglia sul perché va a Yerevan. “Lavoro da freelance, da casa. Sono fortunata in questo senso: ogni volta che ne ho bisogno, posso dire che ho un incontro con i miei colleghi a Yerevan”.
Anche l’apparato statale armeno è consapevole dell’atteggiamento discriminatorio. Una soluzione al problema è stata trovata: un mese fa il governo ha deciso di unire in un’unica struttura il Centro repubblicano armeno per la prevenzione dell’Aids e l’ospedale clinico per le infezioni “Nork”.
Il ragionamento alla base della decisione sosteneva che lo scopo della fusione dei due centri è quello di gestire efficacemente le risorse di due entità giuridiche (personale, finanziarie e patrimoniali), di aumentare le capacità diagnostiche di laboratorio (compresi gli esami a raggi-x ed ecografie), l’efficienza e la produttività dell’utilizzo dei dispositivi medici, di ottimizzare l’infrastruttura amministrativa, di organizzare il lavoro sistematico ed efficiente delle organizzazioni del sistema sanitario. “Un’altra importante considerazione riguarda l’attuale atteggiamento discriminatorio nei confronti delle persone sieropositive e dei malati di Aids nella nostra società, al quale, a nostro avviso, contribuisce l’organizzazione della diagnosi e del trattamento dell’infezione in un’istituzione separata. Ci aspettiamo quindi che la riorganizzazione descritta contribuisca anche all’eliminazione della stigmatizzazione e della discriminazione nei confronti delle persone che convivono con l’Hiv nel nostro paese”, è stato sostenuto a giustificazione dell’integrazione da parte del ministero della Salute armeno.
Questa decisione ha causato qualche malinteso. Vi è stato chi sosteneva che il Centro repubblicano per la prevenzione dell’Aids stesse chiudendo.
“Si intende solo integrare le misure di lotta contro l’Hiv/Aids al sistema sanitario generale di sviluppo e nessun servizio viene chiuso. Si va verso una riforma del sistema per fornire un maggiore accesso e un servizio di alta qualità”, ha chiarito il ministro della Salute armeno Arsen Torosyan in un’intervista rilasciata ad alcuni giornalisti.
“Sai, l’unico aspetto problematico che vivo è quello di non poter far sapere a nessuno che tipo di infezione ho dentro di me. Ci sono stati casi in cui un medico ha parlato del suo paziente a un suo conoscente e poi la notizia si è diffusa. Quel paziente non vive più in Armenia: non poteva vivere sotto il peso di questo atteggiamento discriminatorio. Non abbiamo bisogno di molto: abbiamo bisogno di non essere additati, non abbiamo bisogno di attenzioni extra…”, dice Gayane.