A tutta neve. Ma sull’Ararat. La Repubblica.it
di Massimiliano Salvo
Un viaggio invernale in Armenia, tra monasteri antichi, cime ammantate di banco, tra le immancabili memorie dell’era sovietica e i primi resort per il turismo di stagione
Sopra ai duemila metri il cielo è azzurro ma gli bastano pochi minuti per diventare grigio piombo. Dai tralicci dell’alta tensione pendono candelotti di ghiaccio e all’orizzonte distese immacolate riflettono il sole, appena soffia il vento la neve vola in strada, come in una bufera. D’inverno l’Armenia è gelida ma è facile incontrare belle giornate, perché il clima del Caucaso in alta montagna è asciutto, quasi desertico. Raggiungere il Paese via terra è comunque un’avventura: le frontiere con l’Azerbaijan e la Turchia sono chiuse per i rapporti tesi con in due Paesi, mentre il punto di confine con l’Iran, a sud, è circondato da decine di chilometri di tornanti in una regione impervia e disabitata. L’unica soluzione – sempre che la neve lo consenta – è arrivare dalla Georgia in treno o con una marshrutka, il taxi collettivo tipico nei Paesi dell’ex Urss.
L’ingresso nel punto di confine di Bagratashen porta nella Gola del Debed, un canalone roccioso lungo decine di chilometri dove il fiume scorre tra strapiombi di roccia di rossastra. Villaggi di montagna e monasteri millenari convivono con cittadine industriali e scheletri di ferro e cemento, ruderi dell’epoca sovietica devastati dagli inverni. Le attrazioni principali – i monasteri di Sanahin e Haghpat, entrambi Patrimonio dell’Unesco – sono in cima a all’altopiano, a pochi chilometri dalla miniera di rame di Alaverdi. La chiesa più antica di Sanahin risale al 928 e sembra abbandonata da secoli, il rumore dei passi rimbomba tra cappelle e gallerie coperte dal muschio.
La strada per Vanadzor, una città sovietica con fabbriche chimiche dismesse e tralicci arrugginiti, è un tortuoso susseguirsi di asfalto che si sbriciola e buche. Ma la salita al lago di Sevan, a 1900 metri, ripaga di ogni sobbalzo: una distesa di acqua blu si distende tra le montagne innevate tra vento incessante, aquile e nuvole che corrono veloci. La regione è nota per la limpidezza del cielo, per il gelo – con temperature che da dicembre a febbraio scendono anche venti gradi sotto zero – e lo splendido monastero sulla penisola, a picco sul lago, dove venivano rieducati i monaci peccatori. Il vicino passo di Selim è chiuso da novembre ad aprile, per cui bisogna passare da Yerevan per visitare il resto dell’Armenia. Ma non è un problema: con una deviazione di 30 chilometri dalla capitale si raggiunge il Monastero di Ghegard, una chiesa rupestre costruita in una meravigliosa e arida gola. Il monastero porta il nome della lancia che trafisse il costato di Cristo e fu fondato nel IV secolo, ma venne dato alle fiamme e depredato dagli invasori arabi nel 923.
Se si è diretti a sud, con una jeep si può azzardare il bivio da Garni per Artashat, una strada disastrosa che attraversa steppe di terra arancione e scavalca un monte con una pista sterrata. Non ci sono indicazioni e nemmeno villaggi – solo qualche gregge di pecore e macchine sovietiche cariche come pulmini – ma quando si arriva sulla cima del monte gli occhi brillano di emozione: in fondo alla pianura il monte Ararat domina il paesaggio con i suoi 5165 metri rivestiti di neve e leggenda, un cappuccio di ghiaccio e l’enigma irrisolto dell’Arca. L’Armenia meridionale dista cento chilometri e due passi di montagna in un paesaggio marziano con pietraie rosse, dove gli abitanti dei pochi villaggi vendono lungo la strada spiedini di agnello e pezzi di ricambio per le automobili. Il passo di Vorotan è a 2344 metri e si raggiunge con tornanti e strapiombi che farebbero tremare le gambe, anche senza i guard rail sfondati sostituiti da mazzi di fiori. (19 febbraio 2015)