Alle spalle dell’Ararat – La liturgia tra le rocce (Il Manifesto 29.07.17)
Reportage. Viaggio nel paese dei melograni e gli albicocchi. L’Armenia ospita la prima edizione della Triennale d’arte contemporanea, a cura di Adelina Cüberyan von Fürstenberg, che ha invitato gli ospiti in mostra a ispirarsi al Monte Analogo di René Daumal
«Perché una montagna possa assumere il ruolo di Monte Analogo, è necessario che la sua cima sia inaccessibiloe, ma la sua base accessibile agli esseri umani quali la natura li ha fatti. Deve essere unica e deve esistere geograficamente. La porta dell’invisibile dev’essere visibile». Scriveva così nella sua esplorazione fantastica René Daumal, poco prima di morire – era il 1944 -, in quel romanzo rimasto incompiuto (Il Monte Analogo, Adelphi per l’Italia) in cui il lettore segue le avventure di un gruppo di alpinisti-filosofi che s’ingegnano nella ricerca di possibili pratiche di ascensione. Non sapremo mai come andò veramente a finire, ma possiamo invece seguire una mappa che dai territori immaginari dello scrittore francese agganci approdi in luoghi di densa realtà.
L’ANOMALIA GEOGRAFICA
A capire meglio lo spirito con cui Daumal animò le sue pagin, ci aiuta un’altra vetta inaccessibile, sacra come poche al mondo: è il monte Ararat, oggi in Turchia, nella cui cima perennemente innevata la leggenda narra si nascondano i resti dell’Arca di Noè, protetta da strati di ghiaccio millennari. Lì, a una manciata di chilometri da Yerevan, nella valle dove volano alte le cicogne e si dice che Noé stesso avesse lasciato germogliare il suo giardino fiorito, lì dove sorge il monastero intorno al pozzo nel quale fu imprigionato per 13 anni il fondatore e santo patrono della Chiesa apostolica armena, Gregorio Illuminatore, gli abitanti di Yerevan possono gettare come una rete il loro sguardo lontano, ma non è dato loro di attraversare il confine di quella terra che un tempo era loro. L’Ararat buca il cielo con i suoi 5137 metri di altezza, ma è quasi una fortezza, sorvegliata dai militari turchi disseminati in verdi torrette. La frontiera scorre con le acque del fiume Aras: al di qua pescano gli armeni, sull’altra sponda ci sono i turchi. E l’Ararat, simbolo dell’Armenia fin dall’antichità, non è più raggiungibile per quello stesso popolo stretto per secoli tra dominazioni diverse, dopo aver vissuto ciclicamente massacri, distruzioni, spostamenti di confini, negazioni identitarie e, infine, aver sperimentato miracolose e cicliche rinascite.
PARADISI TERRESTRI
È per questo che una Triennale d’arte contemporanea intitolata The Mount Analogue non poteva che prendere vita in Armenia, ripercorrendo una topografia culturale complessa, a ritroso, spingendo gli stessi artisti invitati a viaggiare per il paese, alla ricerca di una propria «iniziazione».
In realtà, la mostra curata da Adelina Cüberyan von Fürstenberg, appena inauguratasi fra Yerevan e Gyumri (la prima parte visitabile fino al 30 settembre, la seconda aprirà il 14 settembre e chiuderà l’anno 2017) è, più che una collettiva che mette insieme disparate sensibilità creative, una «esperienza di condivisione».
Un’esperienza che affonda le sue radici nella biografia stessa della curatrice (di origini armene pur se nata a Istanbul e cresciuta in Europa) e nell’incontro con un libro che prende su di sé le funzioni favolistiche di un tappeto magico, come il romanzo di René Daumal. Già alla guida del padiglione armeno alla Biennale veneziana del 2015, vincitore del Leone d’oro, Adelina Cüberyan von Fürstenberg è convinta che l’Ararat sia, come il Monte Analogo, «un sacro paradiso terrestre che s’intreccia con la storia contemporanea». A svelarle l’esistenza di Daumal fu un personaggio eccentrico come Meret Oppenheim: la andò a trovare a 16 anni e la colse immersa nella lettura di quel libro misteriosissimo. E dopo ci fu il Monte Verità e un utopista come Harald Szeemann.
POLVERI D’ALFABETO
Per la mostra, ci sono voluti i sopralluoghi di ottobre e aprile, gli approfondimenti storici sul paese e, una volta catturato con il proprio corpo il magnetismo sprigionato dalle pietre armene (basalto, ossidiana, tufo rosso e nero), gli artisti hanno realizzato installazioni site specific, interrogandosi sulla conoscenza. Ognuno, naturalmente, l’ha fatto a modo suo, spesso discutendo per intere serate in piccole comunità nel giardino fiorito della residenza Villa Kars di Gyumri, la seconda città dell’Armenia che conserva ancora il suo antico fascino architettonico, nonostante le devastazioni subìte con il terremoto del 1988.
Gyumri non è una location casuale per la Triennale: nacque qui il filosofo e mistico Georges Ivanovitch Gurdjieff, procacciatore di conoscenze esoteriche e danze spirituali che ebbe come allievo anche l’inquieto René Daumal. È qui, dunque, nella vecchia Alexandropolis un po’ sciamanica che gli artisti hanno scelto i set per le loro opere (al Museum of National Architecture and Urban Life, al Sergey Merkurov Museum e alla galleria di Mariam and Eranuhi Aslamazyan Sisters).
Giuseppe Caccavale (Napoli, 1960, vive tra Parigi e Bari) si è affidato alle intuizioni di Osip Mandel’stam e al suo poema dedicato all’Armenia, lavorando con i ragazzi del posto, incidendo sui muri versi estatici. «Ho conosciuto Mandel’stam attraverso Paul Celan, nel 1990. È subito diventato il mio Duchamp: avevo un gran bisogno di alfabetizzare i miei occhi. E proprio in Viaggio in Armenia Mandel’stam annunciava che gli occhi sono lo strumento del pensiero… Ho ritrovato il suo libro inciso con forza nella speziata geografia armena. Le sue parole sono precisissime, prendono per mano lo sguardo esterno e lo porgono a quello interno. È tutto un soprassalto di meraviglia acustica: camminando, suona tutto attraverso quella lingua fatta di lettere in forma di uncini e tenaglie. Ho gustato il migliore piatto della cucina armena: la polvere del suo alfabeto».
TOPOGRAFIE INTERIORI
Riccardo Arena (Milano, 1979) invece ha seguito il suo stupore e si è impadronito del meccanismo narrativo del Monte Analogo, percorrendo strade interiori e strade «esterne», da scavare nel passato insieme agli archeologi. Ha fiutato tracce, orografie, reperti e ha costellato il suo cammino di radiografie che scandagliassero le viscere del monte, l’interno del suo picco, offrendo una sorta di laboratorio da cui partire per le esplorazioni di territori ignoti, indagati soprattutto attraverso la potenza delle loro rocce (ossidiana).
Mikayel Ohanjanyan (nato a Yerevan nel 1976, vive a Firenze) ha proceduto a ritroso, reimmergendosi nelle leggende fondative del suo paese – un assaggio della complessità di quella tradizione orale e scritta l’avevamo avuta in Biennale nel 2015 con il fiabesco Rotolo armeno di Gianikian Ricchi-Lucci, splendido archivio di storie perdute e ritrovate. In The Door of Mher, Ohanjanyan ha rispolverato l’epos di un eroe tragico, maledetto dal suo stesso padre, rinchiuso in una cavità vicino al lago di Van, da cui si narra uscisse due volte l’anno per tastare la salute del mondo. Ogni volta, però, tornava sdegnosamente nel suo eremo: non era ancora tempo per gesta memorabili. L’artista ha deciso di invitare questo laico messia a uscire dalla tana: lo ha fatto tagliando a metà grandi pietre e graffitando al loro interno una lettera accorata, che per gli altri (i non eletti) resta visibile solo in minima parte. Un cavo d’acciaio tiene in tensione le parti del basalto scolpite
Marta Dell’Angelo (Pavia, 1970) ha scartato la terra e ha guardato all’insù, verso il cielo, puntando direttamente al campo base della scalata del Monte Analogo. Per raggiungere la vetta, bisogna partire da lì e, simbolicamente, è necessaria una staffetta umana. Nulla può essere lasciato incustodito. I suoi «pezzi», che compongono un collage ad alto impatto visivo, sono frammenti raccolti in un itinerario che ha messo in gioco emozioni, letture, sensazioni di viaggio, conoscenza delle tradizioni di civiltà antiche. In collaborazione con Aleksey Manukyan, Dell’Angelo ha dato anche vita alla performance One Whistle 100 Dram, dove proponeva al pubblico fischietti fatti con semi di albicocche (frutto nazionale) e ghiande italiane. Infne, ha scalato la cima del monte Aragats, la più alta d’Armenia, vivendo l’esperienza in coppia e praticando il rito del monosandalismo (un calzare al piede e l’altro nudo) tra nevi e impervie salite, procedendo zoppicante verso l’«iniziazione» ultima.
Il melting pot architettonico, storico e spirituale dell’Armenia è invece il filo rosso che lega i disegni dell’artista israeliano Benji Boyagian. Viaggiando, ha setacciato dentro di sé le concrezioni, i «resti» del paesaggio e li ha restituiti con tratti lievi, in schizzi a inchiostro, lasciando che il contesto sparisse. Galleggiano nell’aria, eterei, chiese, ponti, palazzi sovietici, rovine, acquedotti romani, indicando una rete di assonanze che, frammento dopo frammento, compongono una idea di mondo.
SCHEDA
«Distant Fragments» è la retrospettiva dedicata al fotografo modernista brasiliano (di origini armene) Gaspar Gasparian, curata da Ruben Arevshatyan, presso l’Agbu di Yerevan (ex sede del Parlamento, dal 1906 al 2000), inserita nel contesto della prima edizione della Triennale Standart. Fino al 30 settembre, si potranno vedere le immagini immortalate da Gasparian – nato a São Paulo nel 1899 e morto nel 1966 -, considerato tra i fondatori della scuola di fotografia di São Paulo. Sue le visioni aeree astratte, con prospettive a volo d’uccello che creano delle distorsioni percettive e raccontano gli spazi urbani con luce e linee frammentate. Sempre per la Triennale, presso lo Hay-Art Cultural Center, è approdata l’installazione di Ilya e Emilia Kabakov «20 ways to get an apple listening to the music of Mozart» (il più amato fra i compositori per gli artisti russi) e «Concert for a fly». Un grande tavolo occupa lo spazio e al centro, non raggiungibile dalle mani umane, campeggia una mela, la protagonista filosofica dell’opera, mentre i disegni e i testi accanto ai piatti raccontano – come in un fumetto che si srotola – le possibilità di «vicinanza» con quel frutto.
La storia dell’architettura armena è inseparabile da quella dell’Impero romano d’Oriente, ovvero Bizantino, che nel lungo periodo che va dalla fondazione di Costantinopoli (324 d.C.) alla conquista dei Turchi (1453) assunse lineamenti suoi propri nella lenta trasformazione dal paganesimo alla religione cristiana, con i suoi aspetti di appropriazione della città antica dei suoi edifici e monumenti.
Altrettanto indivisibili, però, sono gli scambi che l’Armenia, con la vicina Georgia, ebbe all’incirca dal V secolo, con le regioni confinanti: la Mesopotamia, l’Anatolia, la Siria. La sua particolare posizione geografica, le conseguenze politiche (e belliche) della sua prossimità alla Persia, una coscienza radicata di autonomia espressa anche dalla sua chiesa, permise lo sviluppo di un’architettura che divenne egemone nell’Oriente cristiano.
Superato l’impianto basilicale con volta a botte su due file di pilastri (Basilica di Ereruk), la maestria degli architektones armeni, ma soprattutto dei mechanikoi – chi sapeva di calcolo – risultò ineguagliabile nell’abilità di coprire con una cupola lo spazio liturgico con pianta quadrilatera e absidata su tre lati (tetraconco).
VIRTUOSISMI
La particolare articolazione della pianta, che nelle espressioni più complesse contiene diverse nicchie, riflette all’esterno le loro sporgenze, le quali creano un particolare gioco stereometrico al quale contribuisce l’emergenza della cupola con il suo tamburo. «Il virtuosismo degli architetti armeni del VII secolo è indubbio – scrive lo storico inglese Cyril Mango – la loro originalità più difficile da provare». Molteplici, infatti, sono state, come si è detto, le influenze subite in quella parte di mondo che, come per l’arte bizantina, non aveva reciso i suoi rapporti con l’antichità (ellenica) e dove si sostennero, attraverso l’alacre impegno delle comunità monastiche, luoghi per il culto disseminati un po’ dovunque nelle valli, sugli altipiani e su colline in posizione sempre dominante.
Nei «secoli bui» della decadenza dell’Impero fiorirono la cattedrale di Echmiadzin (IV sec.), le chiese di Santa Ripsima (618), di Santa Gaiana, di Zvartnots (VII sec., nell’omonimo sito archeologico) e di Shoghakat (ricostruita nel 1694 sulle rovine di una chiesa del VII sec.). Dal 2000 questi luoghi sono stati riconosciuti dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Le chiese di Echmiadzin, la capitale religiosa dell’Armenia, distante venti chilometri da Yerevan, la capitale politica, possono per ora considerarsi salve e la conservazione del patrimonio culturale, è da sempre al centro della politica culturale armena. Non possiamo dire altrettanto nel territorio turco.
Occorre riflettere sul fatto che quando il cinquantenne Joseph Strzygowski esponeva la tesi del primato dell’arte e dell’architettura armena, e più in generale dell’influenza decisiva dell’Oriente, nei confronti della culturale artistica dell’Europa, l’Impero Ottomano tra il 1915 e 1916 perpetrava il genocidio degli armeni, rei di non essere altrettanto nazionalisti come i «Giovani Turchi» saliti al potere.
Se il «grande crimine» è ormai argomento -ancora molto discusso – della storia, permane aperta la questione di quello «culturale», secondo la definizione che ne diede Rafat Lemkin, «un eroe dell’umanità», come titola il saggio di Agnieszka Bienczyk-Missala (The Polish Institute of International Affairs, Varsavia, 2010), rivolto alla battaglia dell’avvocato polacco contro ogni forma di genocidio (ne coniò il termine) ovunque questo si manifesti nel mondo.
FOGA DISTRUTTRICE
Come si può infatti leggere nel sito web «The Armenian Genocide Museum-Institute» (www.genocide-museum.am) la parola «genocidio non si riferisce solo allo sterminio fisico di un gruppo nazionale o religioso, ma anche alla sua distruzione spirituale e culturale».
Per questo è sufficiente scorrere nel sito le immagini di architetture cristiane di epoca tra il VI sec. e il X-XI sec., provenienti da fotografie scattate prima del genocidio armeno messe a confronto con quelle di anni recenti, dopo le distruzioni compiute nel corso di tutto il Novecento e quando questi luoghi sono diventati possedimenti turchi. Del monastero di Salnapat (X-XIII sec.) a Van, nel villaggio di Koghbantz che uno scatto del 1900 lo mostra in tutta la sua intera e larga dimensione, nel 2004 non ne resta più traccia, mentre al posto del villaggio-monastero di Narek oggi c’è una moschea.
Le testimonianze della civiltà armena sono ridotte in rovine: il monastero di Khtzkonk (VII-XIII sec.), di Bagnayr (XI-XIII sec.), il tempio di Tekor (V sec.), e molti altri ancora. Secondo stime dell’Unesco, nella Turchia orientale dopo il 1923 su 913 monumenti storici armeni più della metà sono svaniti completamente, 252 sono in rovina e 197 hanno bisogno di restauri. Ora poiché questi sono numeri risalenti al 1974 la situazione oggi è sicuramente più grave, ma nonostante i richiami del Consiglio d’Europa tutto procede come se nulla fosse e i monumenti della storia e della cultura armena (quel che resta) continuano a essere saccheggiati e distrutti nella repubblica di Erdogan.
SCHEDA
La scoperta del modernismo sovietico della seconda metà del XX secolo con la mostra nel 2012 all’Architekturzentrum di Vienna (Sowjetmoderne 1955-1991. Unbekannte Geschichten) seguente la pubblicazione del libro fotografico di Frédéric Chaubin «CCCP Cosmic Communist Costructions Photographed» (Taschen, 2011), ha determinato il lento processo di rivalutazione delle architetture dell’epoca di Nikita Krusciov così singolari per la loro straniante configurazione volumetrica, in bilico tra sogni cosmici e magniloquenza ideologica. Anche in Armenia se ne possono vedere importanti esempi. Nella capitale Yerevan, Stepan Kyurkchyan disegna la «Komitas Chamber Music House» (1977), un monolite di pietra e vetro, e Zhanna Mescheryakova la «Casa di scacchi Tigran Petrosyan» (1967-1970). La Stazione Metro Yeritasardakan (1972-1981) di Stepan Kyurkchyan è un cilindro che si conficca in diagonale nel suolo, mentre il «Cinema Rossiya » (1975) degli architetti Spartak Khachikyan, Hrachik Poghosyan e Artur Tarkhanyan sono due prismi curvi che si poggiano su un basamento di negozi. Nella penisola di Sevan, il resort estivo (1965) di Gevorg Kochar, Levon Cherkezyan, Mikael Mazmanya, in corso di restauro, conferma quanto ha scritto Ruben Arevshatyan riguardo il rispetto che gli armeni hanno dell’eredità sovietica; ormai hanno compreso il legame tra la «conservazione del patrimonio architettonico moderno e la difesa dello spazio pubblico: improvvisamente, la discussione e l’atteggiamento verso questi edifici sono diventati politici». ma. giu
Paradzanov, tessitore di magie
Armenia. Armeno fino in fondo, nato in Georgia, autore di capolavori realizzati tra lunghi anni di prigione e lavori forzati
Nel 1988 Venezia lo festeggia con il Leone d’oro alla carriera e scompare due anni dopo, il 20 luglio del 1990. Nel lungo elenco dei registi perseguitati e imprigionati, Sergej Paradzanov ha avuto un posto speciale perché le sue opere volano così in alto da non poter essere afferrate. Perfino il suo nome aveva subito una cancellazione, l’armeno Paradzanian sovietizzato in Paradzanov, catalogato come regista russo o georgiano, ma in realtà prendeva posto là dove c’era poesia. «Armeno fino in fondo» si dichiarava. Era nato a Tbilisi in Georgia da genitori armeni nel 1924, aveva studiato all’Istituto del cinema di Mosca, il Vgik, iniziato a lavorare a Kiev in Ucraina. Il primo film che gli diede una grande notorietà fu Le ombre degli avi dimenticati (1964) da un romanzo dello scrittore ucraino Kocjubinskij, storia d’amore tra due ragazzi di famiglie nemiche, un dramma intessuto di mitologia dei Carpazi, popolato da figure arcane, visionario tanto da essere completamente fuori linea rispetto alle regole della cinematografia sovietica, un film che non poté neanche accompagnare a Mar Del Plata dove fu premiato perché da subito venne osteggiato per la sua ardita composizione che si rifaceva in parte alle avanguardie, al surrrealismo, ma soprattutto a una visione assolutamente personale, dove lo sguardo si perde in prospettive inaspettate.
Nei pochi fim che riuscirà a girare nella sua vita – è stato più il tempo passato in prigione – saranno concentrate le suggestioni della cultura armena, georgiana, ucraina attraverso le opere d’arte medievali, le miniature, le tradizioni etniche, i tessuti, i tappeti, gli oggetti, i canti, l’eco del surrealismo nel cinema.
SAYAT NOVA
È del 1969 Il colore del melagrano (1969, Sayat nova-Cvet granata) ispirato a Sayatyan, poeta, musicista, «trovatore» del Rinascimento armeno del settecento che scrisse con lo pseudonimo Sayat Nova in un periodo di grande oppressione culturale. Nel film Sayat Nova vive a corte a Tbilisi, come musicista e si innamora di un impossibile amore per la regina della Georgia (interpretata da Sofiko Chiaureli, grande nome del cinema georgiano, sua musa). Ma, avvertono i titoli di testa, questo film non narra la vita di un poeta, si sforza di riprodurre i moti della sua anima attingendo alla poesia medievale. Un susseguirsi di quadri, che affascinano lo spettatore tanto da non rendersi conto che è già parte del tessuto di immagini. Bisogna ricordare che la politica sovietica tendeva ad uniformare le diverse nazionalità, alla «sovietizzazione» e se i cineasti si ispirano ad elementi nazionali sono pur sempre tenuti sotto controllo, come quando il regista Maljan (che Paradzanov considera un grande regista) nel suo epico «Naapet» (’77) parla del tragico destino di un milione e mezzo di armeni massacrati dai turchi, ma salvato dal genocidio dall’avvento del regime sovietico grazie al quale il protagonista Naapet può tornare alla sua terra. Rispetto a questo tipo di film, dove si mettevano in risalto le ambiguità della borghesia, gli usi e costumi dei contadini, i risultati ottenuti dai sovietici, l’esplosione della poetica di Paradzanov è incontrollabile. Oltre alla forte e sospetta componente spirituale espressa dalla simbologia legata all’ortodossia.
Dopo la censura, il divieto di continuare a fare film, lo scontro con le autorità diventa pesantissimo durante gli anni ’70, per culminare con la prigione nel ’74 con l’accusa di traffico e furto di oggetti d’arte, e omosessualità: invano Pasolini, Fellini, Tonino Guerra, Antonioni, Yves Saint Laurent, Françoise Sagan, Jean-Luc Godard, François Truffaut, Luis Buñuel tra gli altri firmarono un appello per la sua liberazione. Fu condannato a sei anni di lavori forzati, ridotti poi a quattro. Uscì di galera con una grande quantità di disegni e sei sceneggiature (tutti i registi, disse, dovrebbero fare un po’ di prigione)
Realizza nell’80, chiamato dalla cinematografia e dagli intellettuali georgiani, La leggenda della fortezza di Suram, affiancato da David Abasidze e Ashik Kerib dedicato a Tarkovskij, da un romanzo di Lermontov sulla cultura degli Azeri.
LA FORTEZZA DI SURAM
Ancora una volta sorprende nella Leggenda della fortezza di Suram l’inaudita novità del quadro, le location tutte autenticamente in rovina, il surplus del significato storico e culturale, gli oggetti anch’essi autentici e mai imitazioni, sontuosamente barocchi. La leggenda della fortezza di Suram vuole dare un senso filosofico all’eroismo: «L’epoca, gli elementi che sono stati studiati sulla base di quadri storici o semplicemente da me inventati, la plasticità del film, l’immagine naturale, ci conducono verso l’arcaismo». Un piccolo eroe un po’ puerile che gioca a fare il grillo mentre «lei» si veste da farfalla per la festa, ma infine compie la scelta di diventare un eroe per il suo popolo, rinuncia alla vita tra cavalli bianchi. Il mistero del film (come di Sayat Nova) è che sviluppa una miriade di associazioni a una prima visione impreviste, che durano nel tempo come del resto nelle fiabe l’intreccio è da completare ogni volta.
Fu nuovamente arrestato nell’82. Poi torna a Yerevan.
Nella sua casa (infestata dai diavoli? gli disse un giorno Tarkovskij e lui la fece radere al suolo, la ricostruì e vide sulle macerie un tipo che camminava con due cani al guinzaglio, certo erano i diavoli, pensò. Ma sono tante le storie che inventava) nel suo salotto circondato a tutte le ore da poeti, artisti, cineasti, danzatori, da oggetti preziosi e autentici (mai imitazioni, sorride dei russi che arrivano in vacanza ad acquistare paccottiglia finto etnica), indossa caftani realizzati da lui da centinaia di ritagli di tappeti.
Sentiva di aver aperto una piccola finestra nel cinema armeno dalla quale poter vedere prodigi, ma allo stesso tempo pensava che la censura e il disprezzo che aveva subito non gli avevano permesso di lasciare una traccia durevole.