Papa Francesco all’Isola Tiberina: sull’altare maggiore della basilica di San Bartolomeo l’icona dei “nuovi martiri” (Agensir 22.04.17)
Nella basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, a Roma, dove oggi pomeriggio Papa Francesco presiederà una “preghiera per i nuovi martiri”, promossa dalla Comunità di Sant’Egidio, sull’altare maggiore c’è un’icona dedicata ai martiri del Novecento, che rappresenta l’assemblea descritta dal libro dell’Apocalisse: “Dopo ciò apparve una moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide e portavano palme nelle mani”. Nell’icona una folla di martiri si dirige festosamente verso il Cristo, portando palme nelle mani con Maria, Giovanni evangelista e Giovanni Battista, con gli apostoli Pietro, Paolo e Andrea, con i santi martiri Bartolomeo e Adalberto, cui è dedicata la basilica. Sotto, secondo la visione del libro dell’Apocalisse, gli angeli stendono la tenda di Dio sopra la terra. Sulla terra al centro è raffigurato il lager, come una grande basilica di filo spinato, il più alto luogo di preghiera e di unità delle Chiese d’Oriente e d’Occidente. Al di sotto, una città con le mura spezzate rappresenta la frattura della coabitazione: molti sono i testimoni della fede ricordati, dagli armeni, ai cristiani in Algeria, in India, in Libano. In una chiesa dissacrata vengono uccisi uomini e donne mentre pregano: figura centrale è un prete albanese ucciso per aver battezzato un bambino, mentre dalla porta della città escono coloro che sono morti a causa di marce estenuanti, come gli armeni.
In basso, a sinistra si ricorda la Chiesa Ortodossa russa, attraverso il lager delle isole Solovki, a destra le Chiese d’Occidente: tra gli altri Dietrich Bonhöffer, il beato Oscar Romero e il beato Giuseppe Puglisi. Risalendo sulla destra: i martiri vivono oggi la passione di Cristo. L’ingiusto processo (e la memoria principale è quella del vescovo anglicano ugandese Luwum); la tortura e lo scherno, l’esecuzione della condanna a morte. Tra i morti di spada i seminaristi hutu e tutsi che a Buta, in Burundi, furono uccisi perché non si vollero separare e padre Alexander Men’. Tra i fucilati il patriarca dei copti d’Etiopia Abuna Petros, i martiri di Spagna e Messico e il beato Zefirino, il martire zingaro ucciso durante la guerra civile spagnola. Risalendo sulla sinistra: le opere dei martiri. La preghiera: nel buio del carcere in Romania cattolici, ortodossi, battisti si dividono la Bibbia per impararla a memoria e poterla recitare gli uni agli altri. Un uomo solo nella cella ricorda i prigionieri in Cina. La carità: san Massimiliano Kolbe, e con lui chi ha dato la vita per i malati, per gli affamati, per aver accolto i nemici. La comunicazione del Vangelo, infine, ricorda tutti i missionari uccisi in ogni continente.
Il Papa: “I campi profughi sono campi di concentramento” (Lastampa.it 22.04.17)
Molte sono le prove dei giusti, ma da tutte le salva il Signore; egli custodisce tutte le loro ossa, neppure uno sarà spezzato”. Il coro intona le strofe dell’“Inno dei martiri” mentre Bergoglio fa il suo ingresso nella Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, dove presiede nel pomeriggio la veglia di preghiera promossa dalla Comunità di Sant’Egidio per i “Nuovi Martiri” del XX e XXI secolo.
In questo luogo scelto da Giovanni Palo II dopo il Giubileo del 2000 come memoriale dei nuovi e antichi martiri, dove la testimonianza dei cristiani uccisi in odio alla fede nei secoli scorsi si intreccia con quella dei seguaci di Cristo perseguitati dalle ideologie del ‘900 o dalle più recenti follie estremiste, Papa Francesco entra come pellegrino e prega per tutti costoro che hanno «hanno avuto la grazia di confessare Gesù fino alla fine, fino alla morte».
«Alcuni sono stati nostri amici, o anche commensali» dice Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio, nel suo saluto iniziale, ricordando alcuni di loro: don Andrea Santoro, assassinato in Turchia; Shabbaz Bhatti, ucciso in Pakistan; Christian de Chergé, massacrato in Algeria; padre Jaques Hamel, sgozzato in Normandia; il vescovo Enrique Angelelli, perseguitato dai militari in Argentina. Di questi e di altri testimoni è conservato nelle cappelle laterali nella Basilica un oggetto personale: la stola, la patena, il breviario, il pastorale, il calice, la bibbia. «Siamo stati loro amici ma non ci siamo liberati dalla volontà tenace di salvare noi stessi», dice Riccardi, mentre loro «non hanno salvato sé stessi». Anzi hanno voluto ricordarci, attraverso la testimonianza usque ad sanguinis effusionem, che «come cristiani non siamo vincenti per potere, armi, denaro consenso, ma abitati dalla forza umile della fede e dell’amore». Cristiani che, al contrario del resto del mondo sconvolto dalla «guerra madre di dolori e povertà», «non rubano la vita ma la donano».
«Il ricordo di questi eroici testimoni antichi e recenti ci conferma nella consapevolezza che la Chiesa è Chiesa se è Chiesa di martiri», esordisce Papa Francesco nella sua omelia. E con un filo di voce aggiunge «un’icona di più in questa Chiesa»: «Una donna, non so il nome ma lei ci guarda dal cielo – dice a braccio -. Ero a Lesbo, salutavo i rifugiati e ho trovato un uomo trentenne, tre bambini, mi ha guardato e mi ha detto: “Padre, io sono musulmano, mia moglie era cristiana e nel nostro Paese sono venuti i terroristi, ci hanno guardato e ci hanno chiesto la regione e hanno visto lei col crocifisso e hanno chiesto di buttarlo giù. Lei non lo ha fatto: l’hanno sgozzata davanti a me. Ci amavamo tanto”. Questa è l’icona che porto oggi come regalo qui – afferma Francesco – Non so se quell’uomo è ancora a Lesbo o è riuscito ad andare altrove. Non so se è stato capace di uscire da quel campo di concentramento, perché i campi di rifugiati sono di concentramento per la folla di gente, sono lasciati lì e i popoli generosi che li accolgono devono portare avanti questo peso, perché gli accordi internazionali sembrano che siano più importanti dei diritti umani. Quest’uomo non aveva rancore, anche lui musulmano aveva questa croce del dolore portata senza rancore, si rifugiava nell’amore della moglie graziata dal martirio».
Il martire è infatti «un graziato», afferma Bergoglio. «Quante volte in momenti difficili della storia, si è sentito dire: “Oggi la patria ha bisogno di eroi”. E il martire può essere pensato come un eroe, ma la (caratteristica) fondamentale del martire è che è stato un graziato. La grazia di Dio, non il coraggio quello che ci fa martiri». I martiri, prosegue il Pontefice citando i passaggi dell’Apocalisse letti nella liturgia, «hanno avuto la grazia di confessare Gesù fino alla fine, fino alla morte. Loro soffrono, loro danno la vita, e noi riceviamo la benedizione di Dio per la loro testimonianza», dice il Papa. E ricorda anche i «tanti martiri nascosti» di oggi, quegli uomini e quelle donne «fedeli alla forza mite dell’amore, alla voce dello Spirito Santo, che nella vita di ogni giorno cercano di aiutare i fratelli e di amare Dio senza riserve».
Papa Bergoglio inquadra la «causa» delle loro persecuzioni: «L’odio del principe di questo mondo verso quanti sono stati salvati e redenti da Gesù con la sua morte e con la sua risurrezione». L’origine dell’odio è questa: «Poiché noi siamo salvati da Gesù, e il principe del mondo questo non lo vuole, egli ci odia e suscita la persecuzione, che dai tempi di Gesù e della Chiesa nascente continua fino ai nostri giorni. Quante comunità cristiane oggi sono oggetto di persecuzione! Perché? A causa dell’odio dello spirito del mondo».
Allora «di che cosa ha bisogno oggi la Chiesa?», domanda il Papa: «Di martiri, di testimoni, cioè dei santi di tutti i giorni, perché la Chiesa la portano avanti i Santi, eh! Senza di loro la Chiesa non può andare avanti. La Chiesa ha bisogno di Santi della vita ordinaria, portata avanti con coerenza; ma anche di coloro che hanno il coraggio di accettare la grazia di essere testimoni fino alla fine». Fino alla morte.
Tutti costoro sono, per il Papa, «il sangue vivo della Chiesa», i testimoni «che attestano che Gesù è risorto, che Gesù è vivo» e che «ci insegnano che, con la forza dell’amore, con la mitezza, si può lottare contro la prepotenza, la violenza, la guerra e si può realizzare con pazienza la pace».
Prima dell’omelia del Pontefice, momento toccante della celebrazione è stato quello delle tre testimonianze: per prima quella del figlio di Paul Schneider, pastore della Chiesa riformata, ucciso nel campo di sterminio di Buchenwald nel 1939: «Mio padre è stato scelto per testimoniare il Vangelo e questo mi consola», ha detto. È seguito l’intervento di Roselyne Hamel, sorella di padre Jacques, il parroco di Rouen sgozzato da due fondamentalisti nel luglio scorso durante la messa. Mio fratello «non ha mai voluto essere al centro, ma ha consegnato una testimonianza al mondo intero la cui larghezza non la possiamo ancora misurare. Con la sua morte è divenuto un fratello universale», ha affermato la donna. Infine, un amico di William Quijano, ucciso dalle Maras, le terribili bande armate in Salvador, che cercava di «spezzare la catena della violenza» attraverso l’educazione e la formazione dei bambini, nella certezza che «un Paese senza scuole e maestri è un paese senza futuro».
I loro nomi e quelli di tutti i cristiani martirizzati negli ultimi secoli – dalle vittime del genocidio armeno e rwandese, ai copti egiziani morti nelle stragi della Domenica delle Palme – sono stati ricordati nelle preghiere dei fedeli a fine celebrazione. Ad ogni nome o nazione ricordata, è stata accesa una candela. Una candela la accende pure il Papa nelle cappelle laterali che visita una ad una, prima di recarsi nei locali attigui alla Basilica e incontrare un gruppo di rifugiati giunti in Italia grazie ai corridoi umanitari realizzati da Sant’Egidio con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e la Tavola Valdese.
Di migranti il Papa ha continuato a parlare anche fuori dalla Basilica, prendendo il microfono sul piazzale dell’Isola Tiberina dove ad attenderlo c’era un bagno di folla: «Siamo una civiltà che non fa figli ma anche chiudiamo la porta ai migranti. Questo si chiama suicidio», ha ammonito, condannando anche la «crudeltà che si accanisce, allo sfruttamento della gente che arriva in barconi e poi restano lì nei Paesi generosi come l’Italia e la Grecia, ma poi i trattati internazionali non lasciano». «Se in Italia si accogliessero due migranti per municipio, ci sarebbe posto per tutti», ha detto a braccio. E ha concluso auspicando che «la generosità, nel Sud, in Sicilia, a Lampedusa, a Lesbo, salga un po’ su» e «possa contagiare anche il Nord».