Kim Kardashian può fermare la guerra tra armeni e azeri? (Il Foglio 07.04.16)
Un tweet della moglie di Kenye West scatena una mezza crisi diplomatica tra Stati Uniti e Azerbaijan. Il messaggio di solidarietà all’Armenia (che contende la regione di Nagorno-Karabakh allo stato confinante) e quel momento che cambia la vita di una celebrità: quando alla qualifica della professione si aggiunge “attivista”.
Kim Kardashian
Forse il battito d’ali d’una farfalla a Los Angeles non provoca un uragano in Azerbaijan, ma di sicuro il cinguettio di Kim Kardashian su Twitter ha conseguenze diplomatiche tra Stati Uniti e l’ambasciatore azero a Washington. Ne abbiamo avuto certezza quando la moglie di Kenye West ha twittato ai suoi 66 milioni di follower su Instagram e ai 43 milioni su Twitter (la popolazione totale dell’Azerbaijan è di 9.417 milioni), un messaggio di solidarietà nei confronti dell’Armenia, che è attualmente in guerra con lo stato confinante, l’Azerbaijan, con cui si contende la regione di Nagorno-Karabakh. di Kim Kardashian a favore dell’Armenia
“È molto famosa e amata, ma questioni di guerra e pace sono un po’ troppo serie per una star di un reality show”, ha detto l’ambasciatore azero Elin Suleymanov. Piccolo dettaglio: Kardashian è armena. In un articolo per il Time (sì, Kardashian ha scritto per il Time quindi non facciamo troppo gli schizzinosi) raccontò della promessa fatta al nonno, emigrato negli Stati Uniti per sfuggire al genocidio armeno (mai ammesso ufficialmente dal governo turco): qualsiasi persona sarebbe lei diventata, non avrebbe dovuto mai cambiare quel cognome.
ARTICOLI CORRELATI Dunham e Kardashian, le due declinazioni del femminismo che fa fare soldi I nudi di Kim Kardashian e la femminista francese che mette gli animali prima delle donne D’accordo, oggi quel cognome è riconoscibile per tutto fuorché per il genocidio armeno, ma se hai una storia famigliare di quel genere è uno spreco non usarla per migliorare la tua immagine. Una celebrità senza causa è come una gattara senza gatti: incompleta. Brigitte Bardot si è ritirata nel 1974 e si è dedicata a tempo pieno ai diritti degli animali, appunto. Su looktothestars.org si può scorrere la lista: Sting (33 cause, 43 charities), Bono (30 cause, 40 Charities). Angelina Jolie (26 cause, 29 charities) ha detto a Forbes di aver smesso di combattere se stessa e di aver iniziato a combattere per qualcosa di più importante.
C’è un passaggio fondamentale nella vita di una celebrità che è il momento in cui alla professione si aggiunge “attivista”. Se sei solo un attore non stai facendo nulla di buono per nessuno, se sei attore-attivista significa che hai raggiunto lo status impegnato. A quel punto ti si chiederà un’opinione su qualsiasi cosa: politica nazionale, estera, imperialismo, ingegneria nucleare, riforme energetiche. L’argomento critico a questo punto diventa: “Ma chissenefrega dell’opinione di George Clooney sul Darfur, o di Hillary Clinton criticata da un’analista politica improvvisata quale Susan Sarandon, o di Bjork che parla di referendum energetico in Islanda”, e così via.
La responsabilità è anche della politica. Se per diventare presidente degli Stati Uniti spasimi per un selfie con Kardashian-West o per un intervento in cui Eva Longoria arringa gli immigrati messicani, non puoi chiedere alle celebrità di tacere fuori campagna elettorale. Ognuno ha convenienza in questo accordo tra brand: i politici nell’acquisire prestigio e coolness (tutti tranne Obama e Trump: il primo si è trasformato da politico a celebrità naturalmente cool, il secondo da celebrità a politico marcatamente uncool), e le celebrità cercano l’impegno per invecchiare riparate. Non ha tutti i torti chi critica la svalutazione dell’expertise e la riduzione dell’intelligenza nel discorso pubblico. Finiremo a far scrivere editoriali sul Finacial Times a Cristiano Ronaldo?
L’alternativa non può essere “parli solo chi è titolato”. Se a sostenerlo fosse stato Mark Zuckerberg, Facebook oggi sarebbe una mailing list. Il punto è che se a parlare di guerra nel Caucaso è Kardashian c’è il rischio che interessi a qualcuno. Forse un selfie non salverà il mondo ma avrà più risonanza di qualsiasi comunicato stampa che finisce a pagina cento nelle notizie estere. E lo dimostra una verità incontrovertibile: la parola più googlata nel 2015 in Armenia, Turchia e Azerbaijan non c’entra nulla con le diatribe geopolitiche, o forse un po’ sì: è “Kim Kardashian”. Datele un ruolo diplomatico e farà finire ogni guerra dichiarando un unico stato indipendente. Kardashianistan non suona male.