«Nessuna sepoltura per mia madre armena» (Corriere della Sera 10.02.16)
C’è un «orrore nell’orrore» che merita di essere sottolineato, nel genocidio armeno (1915-16) di cui è appena ricorso il centenario: le immani sofferenze e la morte atroce che dovettero patire, negli infuocati deserti di pietra dell’Anatolia orientale, centinaia di migliaia di donne e ragazze armene.
Dopo avere incarcerato, torturato e trucidato tutta la popolazione maschile adulta, la violenza dei Turchi Ottomani si scatenò con inusitata ferocia contro la parte femminile della nazione armena, affinché a quel popolo non fosse concesso di ricostituirsi e riprodursi all’interno dei confini dell’impero. Esiste, anche sotto questo aspetto, un’ampia e ben documentata letteratura.
Nella società e nella famiglia armena la donna era rispettata, sulla base di tradizioni antichissime.
Le madri ricoprivano un ruolo preminente: guidavano con piglio e dolcezza la vita domestica e sovraintendevano all’educazione dei figli. Tutte le ragazze, al pari dei loro fratelli maschi, ricevevano una buona istruzione scolastica. Gli armeni occupavano una posizione economica e sociale di rilievo, poiché costituivano una minoranza colta, benestante e cristiana, in un impero a larga maggioranza musulmana, povera e non alfabetizzata, eccezion fatta per l’élite al potere nella burocrazia e nell’esercito.
Haigaz chiamava: «Mikael… Mikael…» (LibriLiberi, Firenze) la testimonianza di Michel Mikaelian che da bambino sopravvisse miracolosamente alle deportazioni, concorre a documentare questo genocidio, che vede unanimi le ricostruzioni degli storici, sulla base delle testimonianze di protagonisti e sopravvissuti – in contrasto ovviamente con la versione ufficiale della propaganda turca.
Ai vecchi, ai bambini, ma soprattutto alle donne armene toccò in sorte la fine peggiore. Le nonne, le madri e le figlie di Armenia furono deportate in lunghe carovane della morte, «destinazione il nulla», con marce forzate sotto un sole torrido, senza quasi poter mangiare né bere. Morirono dapprima le più anziane, impossibilitate a procedere per le gambe gonfie e i piedi feriti; le ragazze più giovani e attraenti furono rapite o vendute, per essere schiavizzate negli harem turchi o nei villaggi curdi. Durante le soste notturne, in accampamenti precari, le ragazzine si videro strappare brutalmente la verginità dalla soldataglia ottomana, che le violentava a turno, incurante delle grida di disperazione delle madri impotenti. Quasi tutte infine perirono di stenti, arse dalla sete e falciate dalle malattie. Alcune infelici si diedero spontaneamente la morte, gettandosi nelle acque torbide del Mourad o dell’Eufrate, per sfuggire agli abusi e porre fine a un tormento insopportabile.
Anche Fethiyè Cetin, la coraggiosa avvocatessa molto nota in Turchia per il suo attivismo in difesa dei diritti civili (che le è costato, fra l’altro, tre anni di carcere) ha raccontato in un libro del 2004 il doloroso passato familiare. Heranush – Mia nonna (Alet Edizioni) narra di Seher, la matriarca che ha sempre avuto un debole per quella nipote così intelligente e dotata, e che un giorno le rivela: «Io non mi chiamo Seher, mi chiamo Heranush. Io non sono turca, sono armena. Un giorno sono venuti i gendarmi, e hanno ucciso gli uomini, li hanno sgozzati e gettati nel fiume. Le donne e i bambini sono stati mandati in esilio…». Heranush, 9 anni, viene strappata alla mano di sua madre, della quale non saprà più nulla. Solo molti decenni più tardi sua nipote scoprirà che nelle vene della famiglia scorre il «sangue corrotto» del popolo armeno.
Heranush appartiene al «resto della spada», come Mikaelian, che per salvarsi abbandona il fratellino di neanche due anni, sordo ai suoi richiami, e si allontana senza voltarsi.
Il sopravvissuto dedica al calvario delle donne armene parole dolorose: «Alla fine, solo pochissime fra voi arriveranno sul luogo dell’ultima tappa, negli immensi deserti di Derzor roventi di sabbia. Dopo tutte quelle terribili prove, sopravvissute per miracolo, renderete l’ultimo respiro in quelle terre torride e inospitali».
L’adolescente rivive lo struggente ricordo di sua madre, che rifiuta la proposta di un turco amico di famiglia di trasferirsi da lui, per evitare la deportazione: «Figli miei, nessuno di noi, mai, sarà musulmano. Preferisco morire fra mille sofferenze nelle sabbie infuocate del deserto». E così sarà: qualche settimana dopo, il giovane Mikael abbandonerà ai piedi di un arbusto il corpo senza vita di Arussiag, che diverrà presto «il festino dei topi e dei corvi». Nessuna sepoltura per una madre armena.