L’arte al servizio della Storia. Il GRANDE MALE – recensione
Dai Giovani Turchi dell’Impero Ottomano, anno 1915, alla Repubblica di Weimar, anno 1921; dalla cinica opportunità data dalla Prima Grande Guerra di eliminare un problema politico (l’alleanza tra Armenia e la nemica Russia) all’ultimo barlume di democrazia di un’intera era storica: è un fil rouge contraddittorio, quello che avvolge e caratterizza il Novecento come età di Vita e Morte. Epoca della rivoluzione tecnologica, sanitaria e alimentare, ma anche del dolore e dell’ignavia, nel XIX secolo trovano un accostamento solo apparentemente paradossale l’inaudita esplosione demografica (che portò da uno a quasi cinque miliardi la popolazione mondiale) e la miscela di darwinismo sociale, nazionalismo e totalitarismo dei Genocidi di Stato.
Riferito con ovvietà all’Olocausto degli Ebrei, il termine (Genocidio) non è, purtroppo, di esclusiva competenza del popolo ebraico, non il primo, l’unico o l’ultimo a essere oggetto di sterminio effettuato con metolodogia scientifica, razzista e ideologica. Era il 15 marzo 1921 quando, a Berlino, lo studente armeno Soghomon Tehlirian freddò lucidamente Taalat Pasha, ex Ministro degli Esteri turco, condannato dal Tribunale Rivoluzionario Armeno come responsabile della pulizia su base etnica del popolo armeno (pur nella controversia delle cifre, si contano oltre un milione di vittime): senza voler tornare all’annientamento dei popoli americani da parte di europei latini e anglosassoni e senza alcun forzatura, sarà lo stesso video in scena della dichiarazione di invasione della Polonia del 1939 di Hitler («Chi mai si ricorda oggi dei massacri degli armeni?») a ricordarci come le disperate marce della morte naziste (che, a conflitto ormai segnato, portarono al massacro prigionieri dei campi di concentramento) trovino un diretto antesignano nelle stragi degli armeni, nell’ordine dato dai Giovani Turchi di deportazione di oltre un milione di persone con la conseguente morte di migliaia di essi per malattia, fame o deperimento,
Il rischio di un taglio scontato e banale del tema centrale dello spettacolo, «la ricostruzione documentata di molteplici aneddoti che vanno a formare un chiaro quadro del contesto politico nel quale il progetto genocidiaro venne messo in atto» nei confronti degli armeni a opera dei turchi del 1915, viene complessivamente superato con merito, grazie a un allestimento chiaro nella sua cruda esposizione, a tratti barocco nella restituzione visiva (funzionale per gestire i cambi di scena) e non sempre efficace nel complicare con coerenza drammaturgica l’intreccio narrativo con la ricercata complessità di visione.
La regia e il testo di Sargis Galstyan non deludono, però, le aspettative, teatralizzando in modo lineare e coinvolgente le intricate e drammatiche vicende storiche, il «vortice di informazioni documentate che guidano lo spettatore nel dramma degli avvenimenti di quegli anni», nonostante alcuni personaggi risultino troppo caratterizzati per interpretare i diversi protagonisti della vicenda, come nel caso di Stefano Ambrogi nel doppio ruolo del carnefice (Taalat) e di convinto avvocato difensore di quello stesso Tehlirian che il tribunale tedesco decise clamorosamente di assolvere per onestà morale.
Senza voler approfondire la trama, tratta da una storia vera assolutamente incredibile, Il grande male è, dunque, la rappresentazione di un’etica manichea perché non ipocrita, che non cela dietro alcun buonismo le responsabilità storiche (come quelle della Germania), uno spettacolo che il regista Sargis Galstyan riesce a calibrare, approfondendo – al netto di una recitazione, probabilmente, dall’eccessiva enfasi retorica – i vari aspetti della vicenda attraverso la successione documentata, vivida e reale dei nomi, delle immagini e dei personaggi. Le video-scenografie tecnologiche, contribuendo attivamente alla costruzione della vicenda, assumono un interessante protagonismo, dando a Il grande male lo spessore di un’opera profondamente tragica nel e con la quale dar voce alle vittime e giusta consistenza al passato, affinché quest’ultimo possa, per il presente, costituire l’urgente e indispensabile monito a interrogarsi sulle responsabili di azioni che, ancora oggi (e a venire), chiedono giustizia. Continua…