Albània Caucasica: la divulgazione non deve distorcere la storia (L’Osservatore Romano 01.08.24)

Lo scorso 24 luglio è stato pubblicato su questo giornale l’articolo «Viaggio nell’antica Albania caucasica. Alle radici del cristianesimo» a firma della studiosa Rossella Fabiani. Su questo articolo, che ha suscitato diverse contestazioni, riceviamo e volentieri pubblichiamo la riflessione dell’Arcivescovo Khajag Barsamian Rappresentante della Chiesa Armena Apostolica presso la Santa Sede.

Nell’articolo Viaggio nell’antica Albania caucasica. Alle radici del Cristianesimo, l’autrice Rossella Fabiani si propone di far conoscere ai lettori le origini cristiane del Caucaso orientale e il suo patrimonio culturale, largamente ignorato in Occidente. L’entusiasmo che traspare da quelle righe, va tuttavia, sempre coniugato con il rigore dell’informazione storica. La narrazione del passato impone anzitutto la conoscenza e il rispetto delle fonti e dei metodi che il loro uso esige, altrimenti si finisce col dare una visione distorta e fuorviante della storia, contribuendo ad accrescere le incomprensioni, soprattutto laddove non si è ancora arrivati a una ricostruzione condivisa dei fatti.

Senza addentrarmi in un’analisi storica troppo dettagliata, vorrei soffermarmi solo su alcuni passaggi dell’articolo.

Sorprende, per esempio, la definizione geografica dell’antica Albània caucasica come il territorio che «si estendeva dalle montagne, a nord, al fiume Aras a sud e dal mar Caspio, a est, ai confini della Georgia (allora Iberia) a ovest». Intanto, si ignora l’esistenza dell’Armenia, uno degli antichi regni caucasici con cui, secondo tutte le fonti classiche e armene, confinava l’Albània. Dall’altro canto, l’estensione dell’Albània fino all’Aras (l’Arasse nelle fonti classiche) contrasta con la testimonianza di quelle stesse fonti. Esse parlano, piuttosto, di un’Albània estesa a nord del fiume Kura, dove si trovavano il centro politico e religioso del Paese, la Chiesa tradizionalmente ritenuta come prima Chiesa albana e dove sono state rinvenute le uniche sette iscrizioni albane a oggi note. Solo alla fine del IV secolo furono inglobate nel territorio albano originario le terre che si stendevano a meridione, fin verso il fiume Arasse.

La penetrazione del cristianesimo nel Caucaso e la relazione tra le tre Chiese nazionali — albana, armena e georgiana — formatesi in quella regione è un argomento complesso, non del tutto chiarito. Che il cristianesimo caucasico risalga al I secolo è una tradizione legittimamente acquisita e condivisa da tutte le Chiese della regione, che vedono in essa la giustificazione della propria apostolicità. Altrettanto condiviso è il riconoscimento di una seconda fase del processo di cristianizzazione, risalente al IV secolo, quando furono convertite le élite dei regni caucasici, promuovendo il cristianesimo a religione di stato. In questo contesto risulta singolare che si parli dell’importante scoperta dei palinsesti albani del Sinai, asserendo che essi confermano l’esistenza delle prime chiese dell’Albània caucasica già nel I secolo.

Lo straordinario contributo dei palinsesti alla conoscenza della storia albana e, più in generale, del Caucaso non riguarda la datazione dell’arrivo del cristianesimo in quelle terre. Invece, essi mostrano come le fonti armene, in particolare lo storico Koryun, fossero nel giusto quando parlavano dell’esistenza nel Caucaso di tre alfabeti — armeno, albano e georgiano — usati per tradurre le scritture già agli inizi del V secolo.

La convivenza tra la Chiesa armena e quella albana non fu facile, già dai primi secoli della loro esistenza. La Chiesa albana subì una forte influenza da parte di quella armena, tanto da risultarne profondamente armenizzata sin dal Medio Evo. Anche su questo aspetto i palinsesti possono gettare nuova luce. Infatti, Jost Gippert, uno degli editori di questi manoscritti, mette in evidenza la dipendenza della versione albana del Vangelo di Giovanni trasmessa in uno dei due palinsesti da quella armena. Non si può ignorare la complessità di queste relazioni, e affermare che l’“armenizzazione” della Chiesa albana risalga agli inizi del XIX secolo, citando il trattato di Turkmenchay del 1828 e l’abolizione della Chiesa d’Albania e la sua subordinazione a quella armena nel 1836, per volontà dello zar Nicola .

Se così fosse, come si spiega che la petizione indirizzata dai fedeli di quella Chiesa allo zar Pietro I il Grande nel 1724, per invocare la protezione del sovrano di fronte ai musulmani, fu redatta in armeno, e che, sempre in armeno, l’allora catolicos della Chiesa albana, Esayi Hasan-Jalaleants (1702-1728), discendente di un nobile casato a lungo alla guida del catolicosato, scrisse la sua Breve storia della terra degli albani, all’inizio della quale elencava gli storici che lo avevano preceduto, tra cui quelli «della nostra nazione armena»?

Come mai le chiese dell’Artsakh (come chiamano quelle terre gli armeni) ricordate nell’articolo, sottoposte alla giurisdizione del catolicos albano, portano solo iscrizioni armene che datano almeno dal XI – XII secolo, mentre non c’è traccia di iscrizioni albane? Infatti, il migliaio di iscrizioni studiate dall’orientalista Iosif Orbeli e appartenenti alla Chiesa albana citate nell’articolo, sono tutte in armeno e risalgono a molti secoli prima della presunta “armenizzazione” di quella Chiesa agli inizi del 1800.

Trattare questi argomenti pone una questione etica, in particolare quando la storia irrompe nel presente, e bisogna fare attenzione a non alimentare ulteriormente tensioni che hanno già causato migliaia di morti e indotto decine di migliaia di armeni a lasciare la propria terra, abitata da tempi immemorabili.

di KHAJAG BARSAMIAN

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