Quali destini nella polveriera caucasica? Risponde Di Liddo (CeSI) (Formiche.it 10.09.23)
l direttore del Centro Studi Internazionali analizza le dinamiche politico-securitarie della regione euroasiatica. In cui il controllo di Mosca, per una serie di fattori, si sta affievolendo sempre di più
I recenti risvolti registrati in Armenia riportano l’attenzione dell’opinione pubblica sulla regione montana al confine tra Asia ed Europa, da sempre considerata come l’area più calda dello spazio post-sovietico. Come e perché sono cambiati i rapporti di forza e le dinamiche di potere in questo teatro, e a vantaggio di chi? A rispondere a queste ed altre domande per Formiche.net è Marco Di Liddo, direttore del Centro Studi Internazionali.
In un’intervista a Repubblica pubblicata domenica 03 settembre il Primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha dichiarato che l’Armenia ha sbagliato ad affidarsi esclusivamente a Mosca come security provider. Poche ore dopo, Erevan ha annunciato esercitazioni militari congiunte con gli Stati Uniti. Come interpreta questo segnale?
Un segnale senza precedenti nella storia del Paese dal 1991, anno della sua indipendenza. Segnale che si inserisce nel solco di un rapporto che, fino a poco tempo prima di questi eventi, era un rapporto solidissimo, probabilmente il più solido nella galassia post-sovietica. Non solo dal punto di vista politico, ma anche (e soprattutto) da quello economico. Questo ‘cambio di rotta’ dell’Armenia può essere oggetto di due possibili interpretazioni. La prima è quella di voler mandare un ‘avvertimento’ a Mosca, e suggerire che quello che è successo in Ucraina e in Kazakistan, due paesi dove l’influenza russa negli ultimi anni è calata drasticamente, può succedere anche in Armenia: per evitare che ciò accada è necessario un rinnovato impegno da parte di Mosca sia sul piano politico che su quello economico tramite interventi sulle relazioni bilaterali, e soprattutto sul piano dell’impegno russo rispetto al dossier del Nagorno Karabakh. La seconda interpretazione invece è che la leadership armena sia intenzionata a realizzare una netta virata in politica estera, dopo essersi resa conto che il benessere e la stabilità della propria nazione albergano in altri tipi di rapporti e di partnership.
Pensa che il conflitto in Ucraina, e prima ancora quello del Nagorno Karabakh, siano stati dei “punti di svolta” nelle relazioni tra Federazione Russa e Armenia?
Certamente. Ma tra il conflitto in Ucraina e quello in Nagorno Karabakh, non c’è dubbio che sull’Armenia abbia pesato più quest’ultimo. Per le ragioni geografiche e per il peso politico e simbolico che questo conflitto ha per la leadership armena. Gli armeni si aspettavano un maggior coinvolgimento russo, soprattutto dopo l’ultima escalation del 2020, dove gli azeri si sono rivelati vincitori sia sul piano militare che su quello politico, grazie soprattutto ad un protagonismo turco che si è tradotto in un concreto supporto per Baku. Probabilmente a Erevan ci si aspettava che Mosca assumesse una posizione più forte a loro tutela, con un atteggiamento più assertivo sia nei confronti di Baku che di Ankara. Questa cosa non è avvenuta per mille ragioni, ma ha comunque lasciato gli armeni con l’amaro in bocca. Ma anche la crisi Ucraina ha contribuito a modellare i rapporti tra Armenia e Russia. Quello che è successo in Ucraina non è un comportamento ‘nuovo’, si incastona all’interno di una ‘Dottrina Breznev 2.0’. Quando Putin vede che gli strumenti del soft power e della corruzione non bastano a tenere uno Stato ancorato alla propria orbita, non lesina interventi militari pesanti. E come Paese del cosiddetto “estero vicino”, questa cosa spaventa. Credo che anche questo abbia influenzato la posizione dell’Armenia.
Come vede il rapporto tra Ankara e Mosca, sia dentro che fuori dal Caucaso?
Il rapporto tra Ankara e Mosca non è prettamente amichevole. Io lo definirei piuttosto un rapporto pragmatico: è vero che i turchi cercano di fare da mediatori nel conflitto in Ucraina, ma allo stesso tempo hanno sin da subito condannato l’invasione del 2022, e ancora prima non avevano riconosciuto l’annessione della Crimea, definendola anzi una mossa azzardata. E supportano l’Azerbaigian contro l’Armenia. Quindi si, da una parte comprano gli S-400 e si muovono in grande sinergia riguardo alle questioni energetiche, ma quando gli interessi collidono non esitano ad assumere un atteggiamento duro nei confronti di Mosca. Abbiamo tanti esempi al riguardo, il Caucaso ma anche la Siria sono soltanto alcuni di questi. Nel Caucaso la penetrazione turca avviene con gli strumenti ‘classici’ che Ankara ha impiegato anche nei Balcani, ovvero l’azione sinergica della diplomazia ufficiale, dell’incremento della cooperazione economica in svariati settori, e della ‘diplomazia culturale’ che crea dei legami importanti a livello sociale, legami che poi la Turchia riesce a tradurre in partnership concrete. Il limite della Turchia è la sua economia vulnerabile, e la volatilità della lira turca è un problema, ma dall’altra parte della montagna non ci sono attori in grado di sconfiggerla da questo punto di vista; anzi, gli attori con cui Ankara si confronta sono sempre al suo livello, se non inferiori. E questo è un vantaggio tattico importante.
Anche l’Azeirbaigian, così come l’Armenia, faceva parte dell’Unione Sovietica. I retaggi del passato pesano ancora per Baku?
L’Azerbaigian è oramai distaccato da Mosca, il suo punto di riferimento è Ankara. E quanto avvenuto in concomitanza della crisi ucraina lo dimostra: Baku ha infatti sfruttato le dinamiche di questa crisi per massimizzare i propri interessi nazionali, ad esempio incrementando le quote di esportazione degli idrocarburi verso l’Europa. Per la Russia l’Azerbaigian è diventato comunque un Paese ‘pericoloso’, soprattutto nell’ottica delle relazioni con l’Europa, perché può influenzare le relazioni energetiche tra Europa e Russia, con tutte le conseguenze del caso, soprattutto perché potrebbe inserirsi strutturalmente, e non solo in via temporanea.
Ritiene che le dinamiche del conflitto in Ucraina abbiano influenzato “direttamente” la politica di Mosca nella regione caucasica, o che esso abbia soltanto “assorbito” una parte delle risorse che Mosca destinava a quella regione prima del 2022?
Entrambe, più la prima che la seconda. Sicuramente il conflitto ucraino ha drenato risorse e attenzioni dalla regione caucasica, ma più di quello è stato il comportamento russo a spingere gli Armeni a questo, almeno apparente, cambio di direzione. In realtà la Russia pensava di aver risolto il ‘problema Caucaso’ nel 2008, con l’invasione della Georgia, l’istituzione degli ‘stati autonomi’ di Abkhazia e Georgia, e le conseguenti politiche di ‘congelamento’ della situazione sul campo. Negli ultimi mesi addirittura il governo georgiano si era avvicinato alle posizioni della Russia, scatenando un conflitto interno on la fazione più ‘occidentalista’, salvo poi fare marcia indietro. Ma i fatti hanno dimostrato che non è così.
Come ha appena detto, la strategia del frozen conflict si è rivelata piuttosto efficace in Georgia. Perché Mosca non ha potuto cercare di replicare una simile situazione in Ucraina?
Non poteva fare lo stesso perché lo scenario era diverso, gli interessi erano diversi e la posta in gioco era infinitamente più alta. In Ucraina parliamo di un conflitto regionale con impatti globali, perché in quel teatro di guerra si contribuisce a modellare il nuovo ordine mondiale. Nel conflitto in corso ci sono in ballo la credibilità non solo di Mosca, ma anche di Europa e Stati Uniti, e la credibilità è fondamentale per proiettare con successo la propria influenza in altri contesti, come l’Africa, l’indo-Pacifico e l’America Latina. Inoltre, anche l’impegno statunitense ed europeo è stato infinitamente più grande rispetto a quello del 2008. Si poteva fare la stessa cosa che si è fatta nel 2022 in ucraina, ma la si è fatta per la mancanza di sufficiente volontà politica, probabilmente dovuta a diversi rapporti di forza e ai differenti interessi allora in gioco. In Ucraina i tempi, e soprattutto i volumi di interessi, sono diversi. E i risultati sono tangibili ad oggi.
Possiamo quindi individuare un fil rouge che, passando per il 2014, collega gli eventi del 2008 a quelli del 2022?
Assolutamente sì. E si può estendere questo filo anche ad eventi precedenti, come la Rivoluzione Arancione del 2004 e la prima guerra del gas russo-ucraina di pochi mesi dopo. E questo filo collega eventi diversi, ma legati allo stesso contesto: periferie che si sentono per la prima volta pronte a gestire in modo autonomo e la politica estera e la politica interna, pronte a cogliere le opportunità che il mondo fuori dallo spazio post-sovietico offre. E la Russia che può soltanto impiegare strumenti cinetico-militari per tenere legati questi stati del proprio Near Abroad, prima tramite la “militarizzazione” delle risorse energetiche, per arrivare poi all’utilizzo dello strumento militare vero e proprio.