Tredicesimo giorno del #ArtsakhBlockade. Gli Armeni dell’Artsakh in marcia verso il posto di blocco delle forze di pace russe per chiedere la rimozione degli Azeri dal Corridoio di Berdzor (Lachin) (Korazym 24.12.22)
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 24.12.2022 – Vik van Brantegem] – Nel tredicesimo giorno del blocco dell’autostrada Stepanakert-Goris nella Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh, organizzato dalla dittatura dell’Azerbajgian con la copertura di sedicenti ecoattivisti azeri, è evidente che solo l’interposizione di una forza internazionale di pace del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite consentirà la riapertura del Corridoio di Berdzor (Lachin) e la protezione del popolazione armena dell’Artsakh. Stiamo assistendo di eventi epocali nel mondo. Di pochi tra questi si parla sui media (che scelgono accuratamente di cui dobbiamo essere informati) e la corsa per la sopravvivenza dell’Armenia è tra è in alto nella lista dei drammi rimossi dall’attenzione pubblica. La crude verità è che gli Armeni, la nazione cristiana più antica del mondo e le vittime del primo genocidio moderno, stanno affrontando l’estinzione nel loro territorio ancestrale, punteggiato dalle loro chiese, monasteri e croci di pietra.
++++ «Sono uno dei 3.000 che oggi hanno marciato fino a Shushi, dove il rappresentante delle forze di pace russe ha detto che la strada sarà aperta il 26 dicembre e non ci saranno posti di blocco azeri» (Marut Vanyan, giornalista freelance a Stepanakert – 24 dicembre 2022 Ore 17.41) ++++
Foto del giorno
Quando una foto vale più di mille parole
Oggi, nel tredicesimo giorno di #ArtsakhBlockade il popolo dell’Artsakh, in maggioranza giovani, con donne e bambini, hanno avviato un’azione di protesta in piazza della Rinascita a Stepanakert, chiedendo l’immediata apertura della strada che collega Artsakh all’Armenia e al mondo esterno. Successivamente, i partecipanti all’azione di protesta hanno marciato verso il complesso commemorativo di Stepanakert per rendere omaggio ai soldati morti nelle guerre dell’Artsakh e poi verso posto di blocco delle forze di mantenimento della pace russa sulla strada Stepanakert-Shushi, per chiedere che rimuovano gli Azeri dal Corridoio di Berdzor (Lachin). “Perché loro? Perché abbiamo una dichiarazione tripartita firmata il 9 novembre 2020, in cui le parti hanno obblighi chiari, e oggi è chiaro che entrambe le parti [la Federazione Russa e l’Azerbajgian] non adempiono o non sono in grado di adempiere ai propri obblighi. L’Azerbajgian viola la sesta disposizione della dichiarazione e la Russia si è impegnata a garantire la sicurezza del Corridoio di Lachin, che non fornisce o non è in grado di fornire”, ha affermato Tigran Petrosyan, uno degli iniziatori dell’azione di protesta.
Ieri, 23 dicembre, un altro gruppo di cittadini dell’Artsakh è partito da Stepanakert verso il blocco azero all’altezza di Shushi, per presentare contro-argomentazioni alle false affermazioni degli Azeri che si spacciano per ambientalisti, bloccando la strada che collega l’Artsakh all’Armenia e al mondo esterno , ma le forze di pace russe non glielo hanno permesso di andare avanti.
Hikmet Hajiyev, l’Assistente del Presidente della Repubblica di Azerbaigian, Capo del Dipartimento per gli Affari Esteri dell’Amministrazione Presidenziale in un post su Twitter ha scritto: «Come mostra il video, gli eco-manifestanti si fanno da parte e un altro convoglio di ambulanze del Comitato Internazionale della Croce Rossa diretto verso Iravan [cioè, Yerevan] attraversa l’intersezione della strada Shusha-Khankandi [cioè, Sushi-Stepanakert]. Il bambino e i suoi genitori sono stati portati a Iravan. La strada è aperta per scopi civili/umanitari. Basta con la propaganda del “blocco”!!!».
Il bambino che lottava per la sua vita doveva essere a Yerevan più di una settimana fa. Se non ci fosse il #ArtsakhBlockade non avrebbe avuto bisogno di un convoglio di ambulanze del CICR per scortarlo. Hajiyev – come il regime fascista che rappresenta – mente sapendo di mentire. Senza vergogna, contando sull’impunità.
Il Ministro degli Esteri dell’Armenia, Ararat Mirzoyan, ha incontrato ieri, 23 dicember, a Yerevan il Ministro degli Esteri dell’Artsakh, Davit Babayan, con il quale ha discusso la situazione causata dal blocco azero del Corridoio di Berdzor (Lachin). Babayan si trova in Armenia dal 12 dicembre scorso, in quanto impossibilitato a rientrare in patria.
Il 24 dicembre, il Presidente della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh, Arayik Harutyunyan, ha incontrato presso il Palazzo della Cultura e della Gioventù a Stepanakert funzionari delle strutture statali e delle società private. All’incontro, a cui hanno partecipato anche il Presidente dell’Assemblea Nazionale dell’Artsakh, Artur Tovmasyan, e il Ministro di Stato, Capo dello Staff Operativo, Ruben Vardanyan, è stata presentata la situazione politico-militare creata dal blocco dell’Artsakh da parte dell’Azerbajgian. Harutyunyan ha osservato che dal 3 dicembre scorso la parte azera ha avanzato richieste inaccettabili per la Repubblica di Artsakh usando il pretesto ambientale. Secondo il Presidente dell’Artsakh, l’unità del popolo e del mondo politico è necessaria per affrontare un’altra sfida.
Durante l’incontro è stata annunciata anche l’iniziativa di tenere una manifestazione popolare nella piazza della Rinascita a Stepanakert, alle ore 14.00 di domani 25 dicembre, confermando ancora una volta la determinazione del popolo dell’Artsakh a vivere nel proprio Paese.
Il Ministro di stato dell’Artsakh, Ruben Vardanyan, aveva convocato una manifestazione popolare il 17 dicembre, ma in seguito ha annunciato che prima della manifestazione avrebbe visitato varie regioni dell’Artsakh, che avrebbe incontrato i cittadini e poi organizzato la manifestazione.
La corsa per la sopravvivenza dell’Armenia
di Sohrab Ahmari [*]
Compact Magazine, 22 dicembre 2022
(Nostra traduzione italiana dall’inglese)
Il 26 febbraio 1988, Mikhail Gorbachev ricevette al Cremlino due scrittori armeni. Uno era il giornalista Zori Balayan, un intellettuale del movimento per l’autodeterminazione armena all’interno dell’Azerbajgian sovietico, un movimento che proprio in quel momento stava agitando il Caucaso meridionale e, per Gorbaciov, mettendo a fuoco i problemi nazionalisti che presto avrebbero spaccato il suo impero comunista. L’altro visitatore era il poeta Silva Kaputikian. Entrambi erano fedeli membri del Partito Comunista e inquadrarono il loro appello in termini di interessi dell’Unione Sovietica.
Ad un certo punto, hanno tirato fuori una mappa dell’URSS pubblicata in Turchia, una mappa usata, secondo loro, per educare i bambini turchi sulla loro vera eredità geografica come Turchi. Su di esso, una vasta regione che si estendeva dall’Asia centrale attraverso il Mar Caspio e nel Caucaso settentrionale e meridionale era dipinta di verde, inclusa l’Armenia. “La Turchia – ricordò in seguito Balayan di aver detto a Gorbaciov -, con questa mappa sta insegnando a scuola che tutti questi territori sono turchi”. Gorbaciov era impassibile. Esaminò brevemente la mappa prima di spingerla verso gli Armeni. “Questa è una specie di follia”, ha dichiarato il leader supremo sovietico.
“Quasi ogni struttura ha mostrato segni di danni da bombardamento”
Più di 34 anni dopo quell’incontro, la folle fantasia respinta da Gorbaciov si sta facendo strada verso la realtà in luoghi come Sotk, un villaggio di meno di 1.000 persone nell’estremo est dell’Armenia che a settembre è stato bombardato dal vicino Azerbajgian. L’assalto faceva parte di una breve ma micidiale incursione che ha visto le forze azere penetrare bene nell’Armenia vera e propria, al contrario del Nagorno-Karabakh, un territorio conteso e fortemente armeno all’interno dell’Azerbajgian che è stato parzialmente riconquistato dagli Azeri nel 2020.
Ho visitato Sotk in ottobre, circa un mese dopo l’assalto dell’Azerbaigian. Una chiesa secolare al centro del villaggio è rimasta illesa, attestando silenziosamente l’indigeneità degli Armeni e del cristianesimo – le due identità sono indissolubilmente legate – in questa regione. Ma quasi tutte le altre strutture hanno mostrato segni di danni da bombardamento di settembre: i tetti dei fienili sono crollati; finestre frantumate e sostituite da teli di plastica; trattori e altre attrezzature agricole deformate dall’artiglieria; in particolare, una vicina caserma bombardata e apparentemente abbandonata dalle forze armene.
“Ci hanno bombardato da ogni direzione per tre giorni”, mi ha detto un contadino mentre mostrava i danni alla sua modesta abitazione. Mentre nessuno è morto a Sotk, altrove più di 100 hanno perso la vita e migliaia sono stati sfollati. Tra gli sfollati vi erano i familiari del contadino, che mandarono i figli a stare presso parenti più lontani dal confine. Dopo essere stato cacciato dall’Azerbajgian durante la prima guerra del Nagorno-Karabakh (1988-1994), che vide gli Armeni conquistare il territorio mentre entrambe le parti espellevano le popolazioni, il contadino chiese: “Ora dove dovrei andare?”.
Più vicino al centro del villaggio, un bambino di 6 o 7 anni ha mostrato con orgoglio i bossoli della granata che aveva colpito la sua casa, ferendo il nonno. Sua sorella, 4 anni, rannicchiata con la madre dentro. Anche loro sono tornati per accudire i loro animali e piantare i loro campi, anche se ogni notte partono per zone più sicure. “La ragazza continua a chiedermi se hanno intenzione di far saltare in aria quest’area”, ha detto la madre. Suo marito e suo suocero, nel frattempo, hanno indicato i loro trattori danneggiati.
Più di recente, il regime cleptocratico dell’Azerbajgian ha imposto un blocco contro i 120.000 Cristiani Armeni che risiedono nel Nagorno-Karabakh. Le autorità di Baku, la capitale dell’Azerbajgian, hanno interrotto l’unica strada che collega il territorio all’Armenia vera e propria, privando la regione di cibo, medicinali e altre necessità fondamentali. Hanno anche interrotto brevemente il gas del territorio in mezzo a temperature gelide, almeno la seconda volta che lo hanno fatto in tanti anni. Gli aerei che proponevano per consegnare rifornimenti umanitari sono stati minacciati di abbattimento.
Gli Armeni, la nazione cristiana più antica del mondo e le vittime del primo genocidio moderno, affrontano l’estinzione in un territorio punteggiato dalle loro chiese e Croci. Nel frattempo, il loro stato-nazione rischia di essere declassato a uno stato sottosviluppato da un Azerbajgian pieno di entrate del gas naturale e incoraggiato dalle élite della politica estera a Washington e Brussel. Mentre la Russia, storica protettrice dell’Armenia, si allontana dalla scena, gli Armeni sono in corsa per la sopravvivenza nazionale.
“Mikhail Sergeyevich – i visitatori armeni avvertirono Gorbaciov nel 1988 -, le idee folli a volte diventano realtà”. E così è.
“Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian non è stato alimentato da odi antichi e mitici”
Il conflitto tra Armenia e Azerbajgian non è stato alimentato da antichi odi mitici, almeno non inizialmente. Piuttosto, le origini della disputa risiedono nell’ascesa del nazionalismo moderno tra la disgregazione di un ordine imperiale – i grandi imperi multinazionali crollati nella tempesta della Grande Guerra – e l’ascesa di uno nuovo: l’Unione Sovietica. Nella sua forma più utopica, l’impero comunista ha cercato di realizzare l’emancipazione di molti popoli trascendendo il popolo in quanto tale. In pratica, Gorbaciov ei suoi predecessori riuscirono semplicemente a congelare sul posto i vari nazionalismi del dopoguerra per la maggior parte del secolo, finché un giorno non ci riuscirono più.
Nel 1918, all’indomani della Prima Guerra Mondiale e secoli di dominio imperiale, prima persiano e poi russo, Armenia, Azerbajgian e Georgia nacquero come stati indipendenti. Nel caso dell’Armenia, il genocidio turco della sua popolazione armena ha dato un impulso particolarmente potente all’indipendenza. Quasi immediatamente, sono sorte controversie sui confini tra Armeni e Azeri in tre province miste: Nakhichevan, Zangezur [Syunik] e Karabakh [Artsakh/Nagorno-Karabakh].
Lo status delle prime due di quelle regioni – Nakhichevan e Zangezur [Syunik] – fu deciso in battaglie campali condotte dalle due parti nazionaliste. Nakhichevan, un frammento di terra situato tra l’Armenia e la Turchia, cadde nelle mani dell’Azerbajgian, formando un’exclave azera, e tale rimane ancora oggi. A Zangezur [Syunik], nell’Armenia meridionale, prevalsero gli Armeni. In ogni caso, la parte vittoriosa ha raggiunto un certo grado di consolidamento etnico, vale a dire che ha bruciato i villaggi dell’altra e ne ha cacciato la popolazione.
Restava indeciso, invece, il destino del Karabakh, che gli armeni chiamano Artsakh. Il montuoso cuore spirituale del popolo armeno, è il luogo in cui è stato creato il loro alfabeto e dove lo stato armeno è sopravvissuto anche se è stato estinto altrove dagli imperi. Gli Armeni del Karabakh hanno mantenuto la loro indipendenza anche attraverso secoli di sovranità iraniana, con i loro governanti che si definivano – e venivano riconosciuti dai persiani come – “scià”.
L’indigeneità degli Armeni nel Karabakh è inconfutabile, data la presenza di chiese secolari e croce di pietra. Eppure, ciò non ha scoraggiato l’attuale regime di Baku dal cimentarsi con il revisionismo storico e la falsa “archeologia” che comporta la rimozione di iscrizioni armene dalle chiese, cioè quando non ha demolito i siti commemorativi. Questi sforzi revisionisti includono una bizzarra affermazione secondo cui gli Armeni sono “intrusi”, che hanno sequestrato la regione agli Albanesi romani o caucasici, un popolo scomparso da tempo da non confondere con gli Albanesi dei Balcani. Come mi disse con un sospiro Grigor Hovhannesyan, ex Ambasciatore armeno a Washington, “i nuovi ricchi di questo mondo possono riscrivere la storia”.
Alla fine, nel 1920, l’Armata Rossa arrivò, conquistando sia l’Armenia che l’Azerbajgian. Presto i bolscevichi avrebbero imposto il loro grande congelamento su tutte le dispute nazionali. Ma cosa fare del Karabakh? Tra le loro decisioni più fatali, per quanto riguardava la popolazione di questa regione, c’era quella di concedere al Karabakh lo status di regione autonoma all’interno della nuova Repubblica Socialista Sovietica di Azerbaigian, avendola inizialmente contemplata come parte della Repubblica Socialista Sovietica di Armenia.
La loro logica – o illogica – è stata oggetto di una voluminosa storiografia sovietica nel secolo successivo. In termini geopolitici immediati, i bolscevichi erano desiderosi di placare l’Azerbajgian ricco di petrolio, che speravano avrebbe anche rappresentato un faro rivoluzionario, convocando le masse oppresse del Medio Oriente a sollevarsi contro i loro governanti. Ma come ha notato lo storico Thomas de Waal, c’erano altre ragioni, attingendo sia alle tradizioni più antiche della politica russa sia ai precetti dell’ideologia marxista. Per prima cosa, i sovietici hanno accolto l’insistenza del modello imperiale russo secondo cui i singoli governatorati dovrebbero avere un senso geografico ed economico e, secondo loro, la Repubblica di Azerbajgian non sarebbe completa senza il Karabakh, poiché, ad esempio, i pastori azeri pascolerebbero il loro bestiame nella regione. Da una prospettiva marxista, inoltre, i sovietici credevano di poter aprire nuovi orizzonti utopici spingendo popoli etnicamente diversi a vivere fianco a fianco, costringendo gli estranei a diventare “popoli fratelli”.
Ecco la cosa pazzesca: per molto tempo ha funzionato tutto.
Per cominciare, c’erano le fondamenta cosmopolite lasciate in eredità da secoli di dominio imperiale. Gli Azeri, pur nascendo come popolo tartaro o turco con origini nelle steppe dell’Asia centrale, erano già stati profondamente persianizzati. Baku era un luogo profondamente cosmopolita nel XIX secolo, sede di molti Ebrei e Armeni. Anche l’Armenia vantava una minoranza Tartara con le proprie moschee. Gli Armeni hanno anche legami profondi con l’Iran, che risalgono alle loro origini come nazione. La dinastia che cristianizzò l’Armenia pochi anni prima della conversione costantiniana, era un ramo degli Arsacidi persiani. Le lingue armena e persiana condividono un notevole numero di affini. Al di sopra di questa fondazione multinazionale, i bolscevichi cercarono di far sorgere una società di mentalità laica, che leggeva la Pravda; Homo Sovieticus, per il quale ciò che doveva importare non era l’armeno o l’azerismo, ma la lotta congiunta per il socialismo reale.
E ancora, ha funzionato. L’Armenia prosperò all’interno dell’URSS, emergendo come una delle repubbliche sovietiche più prospere, grazie ai talenti tecnici e letterari degli Armeni, alla loro capacità apparentemente soprannaturale di navigare nelle strutture del Cremlino e al vecchio affetto dei Russi per una nazione cristiana ortodossa che era in qualche modo sopravvissuta ai rigori del materialismo dialettico. Nonostante la sua ricchezza di carbonio, l’Azerbajgian era molto più povero, anche se nei decenni successivi i leader sovietici azeri g a trasformare la loro repubblica in un centro manifatturiero regionale minore. Il russo era spesso la lingua franca della pubblica piazza – e talvolta anche della camera da letto: perché c’erano matrimoni misti su entrambi i lati del confine interno sovietico – un fatto scomodo che oggi sconcerta e respingono entrambi i popoli.
Per de Waal, il tallone di Achille dell’imperialismo sovietico era la centralizzazione ossessiva. Sebbene Mosca costringesse Azeri e Armeni (e molte altre etnie rivali) a vivere l’uno accanto all’altro, tutte le relazioni dovevano passare attraverso Mosca. Pertanto, queste comunità non hanno mai sviluppato un modo per risolvere le loro tensioni a un livello inferiore, parlando tra loro. Invece, se sorgesse qualche controversia su, diciamo, l’allocazione di determinate risorse, entrambe le parti invierebbero separatamente inviati al Cremlino; spesso, ma non sempre, gli Armeni se la cavarono meglio, grazie alla loro padronanza delle usanze di Mosca.
Finché il potere sovietico stava crescendo e l’ideologia sovietica conservava la sua vitalità, la cosa poteva essere tenuta insieme. Ma negli anni ’80 nessuno dei due era il caso. In una misura all’insaputa di Gorbaciov, l’intero sistema stava andando in pezzi quando i due intellettuali armeni lo visitarono (nel febbraio 1988) per esporre la loro tesi. La sensazione che il grande congelamento sovietico si stesse sciogliendo, aveva dato agli Armeni del Karabakh un’apertura, che usarono per porre fine alla questione lasciata irrisolta dall’accordo successivo alla Prima Guerra Mondiale: vale a dire, la questione della loro indipendenza dall’Azerbajgian.
Nelle settimane e nei mesi che seguirono, proteste pacifiche lasciarono il posto a esplosioni di violente tensioni intercomunitarie. Per un breve periodo, l’Homo Sovieticus fece la sua ultima resistenza, e una nobiltà brillò attraverso la sua inevitabile debolezza: perché quando gli Azeri agitati dalla rivolta del Karabakh, inscenarono un feroce pogrom anti-armeno nella città caspica di Sumgait, i giovani militanti comunisti erano gli unici Azeri per venire in aiuto del loro “popolo fraterno”, gli Armeni. In tal modo, hanno attinto alle tradizioni internazionaliste di sinistra che erano in rapido declino.
Scoppiò la guerra. Entrambe le parti hanno commesso atrocità: benzene iniettato nei corpi dei soldati catturati, massacri di civili in fuga, trasferimenti di popolazione. I casi di fanti che guardavano attraverso il mirino del fucile, solo per intravedere ex vicini e amici che indossavano uniformi nemiche, erano terribilmente comuni. Gli Armeni hanno beneficiato di una combinazione di zelo, iniziativa, accesso anticipato alle armi sovietiche e assistenza della classe degli ufficiali russi appena disoccupati. Quando le acque si calmarono, nel 1994, l’Azerbajgian perse il Karabakh, anche se nessun governo, nemmeno quello armeno che aveva combattuto per esso, riconobbe formalmente la neonata Repubblica di Artsakh. Per gli Armeni in Armenia vera e propria, era sufficiente che i loro cugini del Karabakh fossero al sicuro da una potenziale pulizia etnica, con una strada nota come Corridoio di Lachin che collegava le due società.
I “conflitti congelati” hanno un modo di diventare caldi. Negli anni successivi al trionfo dell’Armenia sul campo di battaglia, l’Azerbajgian sotto il regime di Aliyev – guidato prima da Heydar Aliyev, l’ex capo dell’apparato comunista, e ora da suo figlio Ilham – ha riempito le sue casse con le entrate del gas naturale. E ha iniziato a corteggiare l’Occidente, elargendo denaro ai lobbisti che hanno dato a Baku un nuovo look.
Il regime di Aliyev non era più una cleptocrazia guidata da un tipico presidente a vita post-sovietico. Per gli Stati Uniti e Israele è diventata una punta di diamante contro l’Iran. Agli Europei affamati di energia, è stato presentato come un supplemento o addirittura un sostituto del gas russo. Baku ha anche approfondito i suoi legami con Ankara in ascesa e assertiva, ora guidata dal Presidente Recep Tayyip Erdoğan, le cui ambizioni pan-turche coincidevano piacevolmente con la visione degli Azeri su gli armeni come fastidiosi intrusi. La divisione settaria un tempo solida tra la Turchia sunnita e l’Azerbajgian sciita si è rivelata abbastanza permeabile per gli attori regionali con interessi materiali condivisi.
L’Armenia, nel frattempo, si è trovata sempre più isolata. Ai neoconservatori di Washington non importava che l’Armenia avesse una cultura politica democratica: “È una società di protesta”, come mi ha detto l’ex Ministro degli Esteri, Zohrab Mnatsakanyan. “La libertà è un valore fondamentale ed esistenziale per la gente di questo Paese”. Né l’antica eredità Cristiana dell’Armenia ha influenzato i professionisti della politica estera di destra, proprio come il destino dei Cristiani aveva contato poco quando Washington soppesava i meriti del cambio di regime in Siria e Iraq. Ciò che importava, piuttosto, era che l’Armenia ospitasse una base russa, fosse membro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) guidata da Mosca e avesse legami amichevoli con l’Iran a sud. “Siamo finiti dalla parte sbagliata del bianco e nero”, come mi ha detto Hovhannesyan, l’ex Ambasciatore.
Tutto questo era più che un po’ ingiusto. L’indipendenza armena era stata forgiata in guerra con l’Azerbajgian e, sulla scia di quella guerra, furono i Russi a farsi avanti come partner per la sicurezza di cui avevano un disperato bisogno. Questo accadeva ai tempi di Eltsin, quando le aspirazioni di Mosca di aderire all’Alleanza occidentale erano prese molto sul serio a Washington e a Brussel. Se gli Armeni erano da biasimare per aver stretto un’amicizia con la Russia post-sovietica, lo erano anche le amministrazioni Clinton, Obama e Bush (padre e figlio). Per quanto riguarda i legami dell’Armenia con l’Iran, quelli, come notato, risalgono all’epoca preislamica. La Repubblica islamica, inoltre, fu l’unico partner commerciale dell’Armenia durante la prima guerra del Nagorno-Karabakh, quando un blocco turco minacciava la fame. Gli Americani tollerano molto peggio, in termini di complicate amicizie, da altri alleati isolati.
Quando l’Azerbajgian ha lanciato la sua operazione del 2020 per riconquistare aree del Nagorno-Karabakh, l’amministrazione Trump era in gran parte assente. Nel frattempo, alcuni analisti di politica estera di destra, come Michael Doran dell’Hudson Institute, hanno applaudito le forze azere mentre schieravano droni forniti da Israele per devastare gli Armeni. In gran parte ignorato è stato il filmato della fuga degli Armeni del Karabakh, cantando inni in addio ad antiche chiese che quasi certamente non avrebbero più rivisto. Allo stesso modo, l’Occidente è rimasto muto quando sono emerse prove del fatto che la Turchia di Erdoğan ha rafforzato l’esercito regolare dell’Azerbajgian con i jihadisti siriani, e anche quando la Turchia ha prestato a Baku il know-how della NATO, che ha superato le dottrine militari dell’Armenia in stile sovietico e della Seconda Guerra Mondiale. In Armenia come altrove, “l’Occidente” e l’islamismo violento hanno agito in tandem contro i Cristiani indigeni.
Forse ancora più dannosa è stata la visita di quest’estate a Baku del Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, dove ha firmato un accordo di fornitura di gas con Aliyev e si è espansa sul sedicente “grande leader”: “Sei davvero un partner energetico cruciale per noi, e tu sei sempre stato affidabile”. Quella visita e quelle parole, ritengono le autorità armene, quasi certamente hanno incoraggiato il regime di Aliyev mentre si proponeva di spremere sia il Nagorno-Karabakh che l’Armenia vera e propria. Come mi ha detto il Viceministro degli Esteri, Paruyr Hovhannisyan, in un’intervista a ottobre, prima del recente blocco del Karabakh: “Perché andare in Azerbaigian e presentarlo come ‘il nostro partner più affidabile’, senza menzionare i diritti umani e la guerra?” Mnatsakanyan, l’ex Ministro degli Esteri, è stato più schietto: “Ursula si è presa gioco di se stessa”.
L’indifferenza e l’ostilità occidentali sono particolarmente dolorose per l’attuale governo di Yerevan, che è salito al potere dopo una rivolta popolare del 2015, che ha preso di mira la classe dirigente ossificata dell’Armenia. Al posto delle cricche nazionaliste e ex-comuniste della vecchia scuola, che presero il potere subito dopo l’indipendenza, dopo essersi guadagnate i gradi nella vittoriosa guerra del Karabakh degli anni ’90, gli Armeni votarono per il primo ministro tecnocratico e neoliberista, Nikol Pashinyan.
Il nuovo Primo Ministro si è candidato alla pace e ha cercato di allineare Yerevan con Washington e Brussel. In effetti, è arrivato al punto di segnalare il disappunto per l’invasione russa dell’Ucraina, una mossa rischiosa che secondo alcuni ha spinto un Cremlino già distratto ad abbandonare Yerevan quando gli Azeri hanno effettuato la loro incursione di settembre e il più recente blocco del Karabakh. L’Armenia, inoltre, ha inviato truppe alla missione afghana della NATO. In effetti, è stato il secondo più grande contributore di truppe pro capite, notevole, considerando che è un membro dell’organizzazione di sicurezza russa, la CSTO.
E, chiedono i critici, per cosa? Cosa ci ha portato voltare le spalle all’orso russo? L’Occidente è venuto in nostro aiuto quando i Turchi e gli Azeri ci hanno attaccato? Uno di questi critici, Robert Kocharyan, secondo Presidente dell’Armenia dopo l’indipendenza e veterano della prima campagna del Karabakh, ha suggerito che la sicurezza sta nell’amicizia con la Russia e l’Iran, con i quali Yerevan dovrebbe formare un’intesa difensiva.
Hovhannesyan, l’ex inviato a Washington più vicino all’attuale governo, non crede a questo ragionamento. “Questa è una teoria frivola”, mi ha detto. “L’Armenia è molto negativa riguardo alla mossa di Putin: non solo strategicamente, ma perché rappresenta l’imperialismo del XIX secolo. Anche quando l’Armenia era totalmente nell’orbita russa, anche allora, dopo l’annessione della Crimea, abbiamo espresso quanto più possibile l’opposizione a Mosca”.
Mnatsakanyan, l’ex Ministro degli esteri, che ha negoziato con Putin, concorda: “Penso che sia impossibile. Hai a che fare con due Paesi sanzionati”: Russia e Iran. I Russi, ha detto, possono resistere all’isolamento, ma gli Armeni no: “La Russia è la Russia. Sono preparati a vivere di patate. Pensano così: ‘patate per la madrepatria’. Non è sostenibile, ma stiamo parlando di 5, 10, 30 anni? Ne hanno abbastanza per andare avanti per un po’. Per noi non è sostenibile. Ci sentiamo a nostro agio con i nostri partner occidentali”. Questo, anche se vede attraverso l’ipocrisia occidentale: “È così che funziona il nostro brutto mondo. L’Armenia non è sufficientemente democratica per te, perché non siamo sufficientemente anti-Russi? È questa la tua definizione di democrazia?
Anche se l’Armenia tornasse completamente nell’orbita russa, non vi è alcuna garanzia che possa superare l’attuale impasse. La Russia è distratta da quella che si è rivelata una disastrosa incursione in Ucraina. L’Iran, nel frattempo, ha ammassato 40.000 soldati al suo confine e ha promesso di rispondere a qualsiasi modifica da parte dell’Azerbajgian dei confini dell’Armenia vera e propria, che renderebbe Teheran completamente dipendente dall’Azerbajgian (e dalla Turchia) per il traffico terrestre nel Caucaso e oltre, una situazione che secondo quanto riferito, persino i funzionari americani ammettono che sarebbe inaccettabile per la Repubblica Islamica.
Ma molti in Armenia dubitano che Teheran riuscirà davvero a far fronte a questa minaccia, dati i suoi disordini interni. E se gli Iraniani agissero, potrebbero creare un potenziale scenario da incubo: una guerra azerbajgiana-iraniana significherebbe anche una guerra turco-iraniana, vale a dire una guerra NATO-iraniana, con la Russia nucleare in bilico nelle vicinanze, inclusi 2.000 caschi blu russi in Karabakh che potrebbero servire come fili di scatto.
Il risultato è che Baku può spremere e spremere e spremere. Cosa vogliono gli Azeri? Eric Hacopian, un analista armeno di origine iraniana e cresciuto in America, ha descritto in modo netto lo scopo dei giochi di Baku: “Un Nagorno-Karabakh etnicamente ripulito, un corridoio sovrano [che va dall’Azerbajgian alla sua exclave nel Nakhichevan], e la Gazaficazione dell’Armenia vera e propria”. Vale a dire, uno stato armeno gravemente indebolito di cui gli Azeri e i Turchi possono fare ciò che vogliono. O come ha affermato il Viceministro degli Esteri, Hovhannisyan: “L’Azerbajgian sta cercando di spingere così tanto su altre questioni, che dimentichiamo il Nagorno-Karabakh, che ci preoccupiamo così tanto della sicurezza del nostro Paese, non abbiamo tempo per i Karabakhi”. Una lotta che, come mi ha ricordato un deciso legislatore armeno, “è la base dello stato armeno”: il movimento per l’indipendenza all’interno dell’Unione Sovietica.
“Agli armeni del Karabakh deve essere concessa l’autodeterminazione”
Il fatto che gli Azeri abbiano rivendicazioni storiche più deboli sul Karabakh, non significa che manchino di rivendicazioni o che il territorio debba essere completamente “armeno”. Ma significa che agli Armeni del Karabakh deve essere concessa l’autodeterminazione in base alle regole stabilite per giudicare tali rivendicazioni. Aggiungete tre decenni di implacabile ed estrema propaganda anti-armena a cui sono stati esposti gli Azeri, e costringere gli Armeni del Karabakh e gli Azeri a vivere fianco a fianco oggi sarebbe molto più pericoloso di quanto avrebbe potuto essere in passato.
L’obiettivo più ampio, dal punto di vista turco-azerbaigiano, è la realizzazione di un “Grande Turchia”, il sogno illustrato nella mappa che gli intellettuali armeni mostrarono a Gorbaciov. “Il mondo turco si sta riconsolidando”, ha detto Hovhannesyan, l’ex Ambasciatore. “L’unica fastidiosa eccezione è questa striscia di terra è chiamata Armenia. L’aspirazione pan-turca non è accademica. Durante il periodo sovietico, l’Azerbajgian divenne cosmopolita con Russi, Ebrei, Armeni e altri. Il Paese aveva un ambiente più russo ed europeo, ma con Aliyev, per ottenere il potere, sono diventati [puristi]”.
Non ci vorrebbe molto per frenare l’Azerbajgian e i suoi sostenitori Turchi, per convincerli ad allentare la loro morsa sull’Armenia. L’amministrazione Biden e i Democratici al Congresso, per loro merito, si sono affrettati a rispondere all’aggressione di settembre, con il Presidente della Camera, Nancy Pelosi, che ha assunto una posizione di solidarietà a cui molti attribuiscono il merito di aver prevenuto ulteriori salassi. Una maggiore cooperazione di sicurezza USA-Armenia, una mediazione diplomatica più attiva e chiare linee rosse contro Baku, sostenute dalla minaccia di sanzioni, potrebbero far guadagnare tempo e spazio agli Armeni per riarmarsi e ristabilire una misura di equilibrio nella disputa, preparando il terreno per una soluzione della questione del Karabakh. Tale assistenza deve essere senza precondizioni: vale a dire, gli Armeni non devono subire pressioni affinché abbandonino i loro partenariati regionali (con Russia, Iran e CSTO).
La pressione, piuttosto, deve gravare sull’Azerbajgian, che al momento della stesura di questo pezzo, continua il suo blocco del Karabakh, minacciando l’estinzione di 120.000 residenti, mentre continua a far trapelare filmati di torture inflitte ai militari armeni catturati – ciò che i funzionari di Yerevan chiamano la “guerra porno di Baku”. Come mi ha detto l’ex Ministro degli Esteri, Mnatsakanyan: “Qualsiasi stronzata sul fatto che gli Azeri siano persone gentili e amirevoli, non la compreremo. Perché abbiamo guardato i filmati. La domanda è: aspetteremo fino a quando non ci sarà una situazione di Rohingya [genocidio] per reagire?”
[*] Sohrab Ahmari è un fondatore e redattore di Compact. In precedenza, ha trascorso quasi un decennio con News Corp., come editorialista del New York Post e come editorialista e redattore con le pagine di opinione del Wall Street Journal a New York e Londra. Oltre a queste pubblicazioni, i suoi scritti sono apparsi su The New York Times, The Washington Post, The New Republic, The Spectator, Chronicle of Higher Education, Times Literary Supplement, Dissent e The American Conservative, per i quali è redattore collaboratore. Tra i suoi libri ci sono From Fire, by Water (Ignatius, 2019) e The Unbroken Thread (Convergent, 2021).