Le ragioni dell’Armenia. L’ambasciatore in Vaticano replica al suo omologo azero (Faro di Roma 09.07.21)
Ho letto di un “briefing con giornalisti” dell’Ambasciatore dell’Azerbaijan Mustafayev durante il quale il diplomatico ammette che
“l’Azerbaigian si è sentito legittimato a riprendersi nel 2020 i territori…”
A dire il vero l’Azerbaigian, con l’aiuto della Turchia e il coinvolgimento di famigerati gruppi terroristici, ha iniziato una guerra di 44 giorni contro l’Artsakh con gravi violazioni del diritto internazionale, incluse le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza
dell’Onu a cui il diplomatico fa riferimento in quel briefing.
Mustafayev dice che “non c’è stata una guerra per motivi religiosi ma soltanto di confine” e ricorda “la grande libertà religiosa che esiste nel suo paese”.
Una domanda allora si pone: perché migliaia di jihadisti dalla Siria, dalla Libia e dall’Iraq sono stati portati nella zona del conflitto a combattere contro gli “infedeli”? I social media pullulano di video e immagini di membri di gruppi terroristici come Jabhat al-Nuṣra e altri che, talvolta indossando le divise delle forze armate azerbaijane, hanno combattuto contro la pacifica popolazione armena. E ciò è stato confermato da rappresentanti di alto livello di Francia, Russia, Stati Uniti e diverse nazioni ancora.
Curiosamente proprio gli Stati Uniti il 12 maggio scorso hanno pubblicato, a cura della Commissione Usa sulla Libertà Religiosa
Internazionale, il 2020 International Religious Freedom Report. Nel rapporto l’Azerbaigian viene collocato nella speciale lista di nazioni
sotto osservazione a causa delle eclatanti violazioni della libertà religiosa nel paese, non da ultime le recenti violazioni commesse
durante la nuova guerra contro il Nagorno Karabakh e i suoi territori circostanti. Il rapporto inoltre solleva serie preoccupazioni circa la conservazione e la protezione dei luoghi di culto armeni e sulla vandalizzazione e distruzione di cimiteri e lapidi armene.
Per quel che concerne poi la proposta dell’Ambasciatore azerbaigiano su “una mediazione della Santa Sede”, gli va ricordato che il governo dell’Azerbaigian ignora ripetutamente i diversi appelli che il Santo Padre ha lanciato da luglio del 2020. In particolare nel più recente messaggio pasquale il Pontefice ha auspicato: “Continuino gli sforzi per trovare soluzioni pacifiche ai conflitti, nel rispetto dei diritti umani
e della sacralità della vita (…) Conceda a quanti sono prigionieri nei conflitti, specialmente nell’Ucraina orientale e nel Nagorno-Karabakh, di ritornare sani e salvi alle proprie famiglie”.
Vorrei concludere che la popolazione dell’Artsakh non lotta per “motivi di confine”, come dichiarato da Mustafayev, ma per il riconoscimento del suo diritto inalienabile all’autodeterminazione.
Garen Nazarian, ambasciatore della Repubblica di Armenia presso la Santa Sede
La popolazione della Repubblica di Artsakh lotta per il riconoscimento del suo diritto inalienabile all’autodeterminazione… e di esistere. La Nota dell’Ambasciatore armeno presso la Santa Sede
Riceviamo e volentieri pubblichiamo la Nota di Garen Nazarian, Ambasciatore della Repubblica di Armenia presso la Santa Sede e il Sovrano Militare Ordine di Malta (foto di copertina), con cui replica al suo omologo azero Rahman Sahib Oglu Mustafayev. L’Ambasciatore della Repubblica di Azerbajgian, dopo aver partecipato il 30 giugno 2021 con il Corpo Diplomatico alla Santa Messa presieduta da Papa Francesco per la Solennità dei Santi Pietro e Paolo, ha detto ai giornalisti che la mediazione della Santa Sede dopo la guerra dell’Azerbajgian contro la Repubblica di Artsakh sarebbe “di grande importanza per pacificare la regione”. Mustafayev ha osservato che “le tre risoluzioni ONU a favore del suo Paese (1993, 2006 e 2008), negli anni non hanno cambiato nulla e solo per questo l’Azerbajgian si è sentito legittimato a riprendersi nel 2020 i territori che l’Armenia aveva occupati nella prima guerra di Nagorno-Karabakh, finita nel 1994 con l’Accordo di Biškek”. Parole riportate dal Faro di Roma.
L’Accordo di Biškek è l’accordo provvisorio di cessate il fuoco che segnava la fine della guerra del Nagorno-Karabakh, il conflitto armato che si svolse tra il gennaio 1992 e il maggio 1994, tra la maggioranza etnica armena del Nagorno-Karabakh, sostenuta dalla Repubblica di Armenia, e la Repubblica di Azerbajgian. Il conflitto scoppiò in seguito al voto del parlamento del Nagorno-Karabakh il quale, facendo leva su una legge sovietica allora vigente, dichiarò la nascita della Repubblica di Nagorno-Karabakh/Artsakh e il diritto all’autodeterminazione della sua popolazione.
L’Accordo di Biškek venne siglato il 5 maggio 1994 a Biškek, la capitale del Kirghizistan, tra A. Jalilov (firma di R. Guliyev), Presidente del Soviet Supremo di Azerbajgian; K. Baburyan, Presidente del Soviet Supremo della Repubblica di Nagorno-Karabakh; B. Ararktsian, Presidente del Soviet Supremo di Armenia; V. Šumejko, Presidente del Consiglio della Federazione Russa; M. Sherimkulov, Presidente del Soviet Supremo di Kirghizistan; V. Kazimirov, Rappresentante plenipotenziario della Federazione Russa, Capo della missione russa di mediazione; M. Krotov, Capo della Segreteria del Consiglio dell’Assemblea interparlamentare della Comunità degli Stati Indipendenti (CIS).
L’Accordo congelò di fatto il conflitto del 1992-94. Esso esprimeva la determinazione di assistere in tutti i modi possibili dentro e fuori del Nagorno-Karabakh la cessazione del conflitto armato che non solo provocava grandi perdite al popolo armeno ed azero, ma anche colpiva significativamente gli interessi di altri Paesi nella regione e complicava seriamente la situazione internazionale. Inoltre, a supporto di una mozione del Consiglio CIS del 15 aprile 1994, puntava al rapido raggiungimento di un accordo finale e, dopo aver ricordato il ruolo attivo della CIS ed essersi richiamato ad alcune decisioni dell’OSCE e delle Nazioni Unite, si appellava al buon senso delle parti invitando le stesse al raggiungimento di un definitivo accordo di pace. Il cessate il fuoco veniva stabilito per la mezzanotte tra l’8 e il 9 maggio 1994.
Il 9 maggio 1994 il Rappresentante plenipotenziario della Federazione Russa, V. Kazimirov preparò un accordo definitivo di cessate il fuoco che lo stesso giorno venne sottoscritto dal Ministro della difesa azero, Mamedrafi Mammadov a Baku. Il 10 maggio venne firmato dal Ministro della difesa armeno, Serzh Sargsyan a Yerevan e l’11 maggio dal Ministro della difesa della Repubblica di Nagorno Karabakh, Samvel Babayan a Stepanakert. L’Accordo ebbe ufficialmente effetto alla mezzanotte del 12 maggio.
L’Ambasciatore azero ha affermato che “non c’è stata una guerra per motivi religiosi ma soltanto di confine”, ricordando “la grande libertà religiosa che esiste nel suo Paese”, “al punto che nel cuore della loro capitale, Baku, gli armeni hanno la chiesa di San Gregorio l’Illuminatore, in un posto che in Roma equivarrebbe a Piazza Venezia”. Inoltre, ha dichiarato che gli Azeri lamentano che ci siano stati “danni a monumenti religiosi durante il conflitto, anche se su questo gli armeni chiaramente, hanno un altro punto di vista”. Poi ha precisato anche che “sarebbe gradita una mediazione della Santa Sede, come nel conflitto in Oriente Medio, ma anche in tante altre situazioni ed epoche storiche”, per superare gli effetti del “conflitto”.
La replica a Mustafayev dell’Ambasciatore dell’Armenia presso la Santa Sede
Ho letto di un “briefing con giornalisti” dell’Ambasciatore dell’Azerbajgian Mustafayev durante il quale il diplomatico ammette che “l’Azerbaigian si è sentito legittimato a riprendersi nel 2020 i territori…”.
A dire il vero l’Azerbajgian, con l’aiuto della Turchia e il coinvolgimento di famigerati gruppi terroristici, ha iniziato una guerra di 44 giorni contro l’Artsakh con gravi violazioni del diritto internazionale, incluse le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu a cui il diplomatico fa riferimento in quel briefing.
Mustafayev dice che “non c’è stata una guerra per motivi religiosi ma soltanto di confine” e ricorda “la grande libertà religiosa che esiste nel suo paese”.
Una domanda allora si pone: perché migliaia di jihadisti dalla Siria, dalla Libia e dall’Iraq sono stati portati nella zona del conflitto a combattere contro gli “infedeli”? I social media pullulano di video e immagini di membri di gruppi terroristici come Jabhat al-Nuṣra e altri che, talvolta indossando le divise delle forze armate azerbajgiane, hanno combattuto contro la pacifica popolazione armena. E ciò è stato confermato da rappresentanti di alto livello di Francia, Russia, Stati Uniti e diverse nazioni ancora.
Curiosamente proprio gli Stati Uniti il 12 maggio scorso hanno pubblicato, a cura della Commissione Usa sulla Libertà Religiosa Internazionale, il 2020 International Religious Freedom Report. Nel rapporto l’Azerbajgian viene collocato nella speciale lista di nazioni sotto osservazione a causa delle eclatanti violazioni della libertà religiosa nel paese, non da ultime le recenti violazioni commesse durante la nuova guerra contro il Nagorno-Karabakh e i suoi territori circostanti. Il rapporto inoltre solleva serie preoccupazioni circa la conservazione e la protezione dei luoghi di culto armeni e sulla vandalizzazione e distruzione di cimiteri e lapidi armene.
Per quel che concerne poi la proposta dell’Ambasciatore azerbajgiano su “una mediazione della Santa Sede”, gli va ricordato che il governo dell’Azerbajgian ignora ripetutamente i diversi appelli che il Santo Padre ha lanciato da luglio del 2020. In particolare nel più recente messaggio pasquale il Pontefice ha auspicato: “Continuino gli sforzi per trovare soluzioni pacifiche ai conflitti, nel rispetto dei diritti umani e della sacralità della vita (…) Conceda a quanti sono prigionieri nei conflitti, specialmente nell’Ucraina orientale e nel Nagorno-Karabakh, di ritornare sani e salvi alle proprie famiglie”.
Vorrei concludere che la popolazione dell’Artsakh non lotta per “motivi di confine”, come dichiarato da Mustafayev, ma per il riconoscimento del suo diritto inalienabile all’autodeterminazione.
Garen Nazarian
Ambasciatore della Repubblica di Armenia presso la Santa Sede