ROMA E LO STORICO RAPPORTO CON GLI ARMENI (spazioliberoblog.com 19.05.21)
di LETIZIA LEONARDI ♦
L’Armenia ci sembra una terra lontana d’oriente, legata all’occidente per le sue radici cristiane ma pochi sanno che, nel 114, fu anche un’antica provincia dell’impero romano, ordinata dall’imperatore Traiano. Abbandonata da Adriano ritornò sotto il dominio romano dopo le guerre contro i Parti. L’Armenia di allora comprendeva i territori dell’attuale Turchia orientale, Armenia, Georgia, Azerbaijan e una piccola parte dell’Iran nord-occidentale. Quando Pompeo conquistò il territorio, Tiridate I fu incoronato, nel 66 d. C., da Nerone re d’Armenia in una solenne cerimonia svoltasi a Roma ed è plausibile che ci fu sicuramente la presenza nella nostra capitale di considerevoli gruppi di armeni. Secondo un’antica memoria pare che i Cavalli di San Marco siano stati in origine portati in dono a Nerone proprio dal re d’Armenia Tiridate I, in occasione di questa cerimonia.
La presenza armena in Occidente comincia a farsi considerevole a partire dall’Alto Medioevo (dal 476 dopo Cristo). Erano mercanti ma anche religiosi. Era gente di professioni e provenienze diverse. Sapevano molte lingue, erano grandi viaggiatori, bravi negli affari e abituati a un destino avverso che li portava a fuggire dal loro Paese d’origine. Arrivavano in Italia dal regno di Cilicia e dove si insediavano edificavano chiese, ospizi che accoglievano pellegrini e scuole.
A parte l’episodio dell’incoronazione del Re Tiridate I, la più antica menzione di armeni a Roma si trova negli atti del Concilio Ecumenico Laterano del 649 per la presenza di due abati armeni: Thalassio, priore del monastero degli Armeni e Giorgio, priore del monastero di Cilicia, che si trovava vicino al luogo dove fu decapitato S. Paolo apostolo, lungo la via Ostiense. Anche Roma, grazie ai pellegrinaggi, ha ospitato, sin dal XIII sec. una fiorente comunità armena, che aveva, come attesta un’epigrafe del 1246, un monastero, una chiesa e un ospizio, di cui però non esiste attualmente traccia. Secondo alcune testimonianze, nell’IX sec., gli armeni avevano a Roma, in una via vicino al palazzo del Vaticano, una vecchia casa e una chiesa dedicata alla Vergine Maria e a San Gregorio Illuminatore che papa Clemente II avrebbe restaurato e abbellito. La via si chiamava via degli armeni. In piazza S, Pietro, nel XIII sec. c’era un’altra piccola chiesa con un monastero che ospitava 12 monaci e ricordata come cappella di S. Giacomo degli armeni. In base a un documento originale dell’ospizio armeno si può stabilire con certezza che prima che fosse fatta l’attuale piazza della basilica di S. Pietro, gli armeni avevano una chiesa e un ospizio che furono eliminati nel XVI per costruire proprio l’attuale basilica e per allargare la piazza. L’ospizio era abitato da una cinquantina di persone, per lo più monaci provenienti dalla Cilicia e dall’Armenia orientale e da laici di umile origine. Questa struttura sorgeva in quella che allora era chiamata «contrada degli Armeni» e che corrisponde all’area attualmente compresa tra il colonnato del Bernini, il Palazzo del Sant’Uffizio e la Porta Cavalleggeri.
In sostituzione delle chiese sottratte, Pio IV nel 1563 concesse agli armeni di Roma, la chiesa di Santa Maria Egiziaca, nota come tempio pagano. Oltre a questa chiesa, nel 1566, gli armeni presero possesso anche dell’annesso ospizio. Il cardinale Giulio Antonio Santoro, responsabile della politica pontificia verso gli orientali cattolici, assunse anche la supervisione della comunità armena che, da quel momento, godette sempre in Curia di un cardinale protettore.
Nel 1563 papa Pio IV concesse ai pellegrini armeni anche l’uso della chiesa di San Lorenzo dei Cavallucci, all’estremità del ponte ai Quattro capi. Una concessione molto breve perché tre anni dopo il suo successore Pio V destinò quell’area al ghetto per gli ebrei di Roma. Nonostante questo episodio, anche lui fu un benefattore degli armeni infatti gli fece impiantare una stamperia ed era sua intenzione anche costruire per loro un collegio ma morì improvvisamente e prematuramente, nel 1572, e il progetto saltò.
Vicino alla chiesa di S, Maria Egiziaca, con denaro offerto da benefattori armeni, furono costruite abitazioni per l’accoglienza di persone di passaggio, garantendo così un’entrata alla chiesa. Papa Paolo V, nel 1610, concesse agli armeni un privilegio importante: poter ereditare tutti i beni degli armeni morti a Roma senza lasciare testamento e senza eredi legittimi.
Poiché la chiesa di S. Maria Egiziaca era situata nel lungotevere, c’era molta umidità e l’aria non era salubre tanto che, intorno al 1830 gli armeni furono costretti a lasciare la chiesa. In sostituzione gli fu concessa la chiesa di San Biagio della Pagnotta con gli edifici adiacenti, compreso l’ospizio. Anche la sistemazione nella chiesa di San Biagio non fu però definitiva e quando nel 1883 papa Leone XIII decise finalmente di erigere un Collegio, chiamato Leoniano, per ospitare i seminaristi e gli apprendisti missionari precedentemente la scelta ricadde sul complesso di San Nicola da Tolentino, vicino piazza Barberini. È qui dunque che ancora oggi si trova, oltre alla chiesa, l’archivio dell’ospizio degli armeni che non è però aperto per la consultazione a causa della mancanza di inventario.
E nel 1869 sono state rinvenute diverse lapidi con scritte armene.
Per quanto riguarda l’arrivo dei missionari cattolici, essi provenivano soprattutto da Costantinopoli o Isfahan, e dalle città carovaniere come Erzurum. Uno dei segni armeni più datati conservati a Roma è un’iscrizione armena sul portale bronzeo di San Pietro, dedicata a San Gregorio Illuminatore.
Ma vediamo più da vicino le due chiese armene della capitale tutt’ora esistenti.
La chiesa di S. Biagio della Pagnotta si trova in via Giulia 63 e fu eretta sulle rovine di un tempio di Nettuno. Il 3 febbraio, in occasione del giorno di S. Biagio, esiste ancora l’usanza di ungere con l’olio benedetto la gola dei fedeli e nella Chiesa di S. Biagio di Roma si usa distribuire le così dette “pagnottelle di S. Biagio”, dei pani benedetti.
Ma chi era S. Biagio? Nato a Sebaste, attuale Sivas in Turchia, era giovanissimo quando iniziò a studiare filosofia prima e poi medicina. Nell’esercizio della sua professione di medico, conoscendo molti cristiani, decise di convertirsi al cristianesimo e per questo venne arrestato, sottoposto a torture e condannato alla decapitazione. Oggi la devozione di S. Biagio è diffusa in tutto il mondo, santuari chiese, cappelle, altari dedicati a lui sono in ogni parte.
L’altra chiesa armena di Roma è quella di San Nicola da Tolentino, che si trova nell’omonima salita. Appartiene al Pontificio Collegio Armeno e officia sempre messa in armeno. Si tratta di una chiesa barocca costruita intorno alla metà del 1600 su progetto dell’architetto milanese Carlo Buzzi. Rimase di proprietà dei Padri Agostiniani fino al 1870. Passò poi per un breve tempo alle Suore Battistine e successivamente concessa dal Pontefice Leone XIII al Pontificio Collegio Armeno da lui fondato e inaugurato solennemente il primo di novembre del 1883. Nei primi cento anni della sua vita il Collego ha ospitato circa 270 alunni,160 di questi sono diventati sacerdoti; tre sono diventati patriarchi e diciannove vescovi e arcivescovi. Tra gli anni 1939-1943 è stata costruita la sede odierna del Collegio che si trova proprio accanto alla chiesa. L’8 luglio del 1961, grazie ad una donazione del Cardinale Agagianian, è stata inaugurata la Nuova Biblioteca del Collegio Armeno. La struttura è diretta da un Rettore, un Vicerettore, un Amministratore ed un Padre Spirituale che mantengono la struttura e seguono i seminaristi che intraprendono in Italia il loro percorso di studio in vista del sacerdozio.
E, grazie al Cardinale Gregorio Pietro Agagianian, nel 1966, la Radio Vaticana mandò in onda la prima trasmissione in lingua Armena. Da allora la sezione armena della radio ricopre un ruolo importante di collegamento tra la Santa Sede, l’Armenia e la sua diaspora. Ogni terza domenica del mese, viene trasmessa la santa messa solenne con il Rito Armeno.
A Roma, in via Vincenzo Monti, è presente anche la congregazione delle suore armene dell’Immacolata Concezione, fondata a Costantinopoli, l’attuale Istanbul, durante l’Impero Ottomano, sopravvissuta ai massacri hamidiani e poi, al genocidio del 1915. Le suore dell’Immacolata Concezione furono testimoni dirette dei massacri delle loro famiglie, assistendo i feriti, salvando i bambini rimasti orfani. A partire dal 1915, quando divenne esecutivo l’ordine del governo ottomano di deportare tutti gli armeni e lasciarli morire nelle cosiddette marce della morte nel deserto, senza acqua né cibo, la città di Aleppo (oggi in Siria ma all’epoca in Turchia) era diventata il primo luogo di accoglienza di centinaia di migliaia di deportati che arrivavano in condizioni terribili. C’erano migliaia di orfani strappati ai loro genitori, traumatizzati e denutriti. Alla fine delle ostilità, negli anni Venti, la congregazione creò nuove case a Beirut, Alessandria, e Baghdad. Dopo la tragedia del genocidio, Pio XI decise di accogliere nella residenza di Castelgandolfo, per qualche mese, 400 orfane che diventarono presto 500, accompagnate da 12 religiose. Nel 1922, per motivi di sicurezza, la casa generalizia venne trasferita definitivamente da Istanbul a Roma, sul colle di Monteverde e fu comprata nel 1923 dai Cavalieri di Malta. Nell’edificio, su una lastra di marmo, sono ancora incisi i nomi delle 13 suore martiri, durante il genocidio.
Ed è a Roma che c’è una delle comunità armene più attive d’Italia nel commemorare le vittime del genocidio armeno ogni 24 aprile e nel promuovere il riconoscimento del Metz Yeghérn presso i vari livelli istituzionali per giungere all’obiettivo di annoverare anche il parlamento italiano tra quelli delle nazioni che hanno riconosciuto questo grande crimine, perpetrato dall’Impero ottomano nel 1915, con una apposita legge.
LETIZIA LEONARDI