Šuša e i prigionieri di guerra del Nagorno Karabakh: continua il braccio di ferro (Asianews 10.05.21)
Mosca (AsiaNews) – Il 7 maggio il presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliev (foto 1), ha dichiarato la città di Šuša “capitale culturale” del Karabakh azero, dopo averla strappata agli armeni nel conflitto dello scorso novembre. Ma anche gli armeni rivendicano l’appartenenza storico culturale di Šuši (nella loro variante linguistica) alla regione montuosa dell’Artsakh (Nagorno Karabakh).
La città a oltre 1300 metri sopra il livello del mare, era luogo di incontro e scontro tra armeni e azeri, cristiani e musulmani già ai tempi dell’Impero zarista russo. Situata in un crocevia decisivo per i trasporti e il commercio nella regione, Šuša mostrava la sua ecletticità fin dalla sua fondazione nel 1752, con chiese e moschee, grandi mercati e caravanserragli, musei e luoghi d’incontro di poeti e artisti di vario genere. Prima ancora di una rivendicazione bellica e politica, l’appropriazione culturale di una delle due parti è una ferita alla memoria reciproca.
In seguito agli scontri avvenuti dopo il crollo dell’Urss, Šuša era rimasta sotto il controllo armeno fin dall’8 maggio 1992. La dichiarazione di Aliev è avvenuta proprio la vigilia di quella data. L’Azerbaijan aveva dichiarato la conquista della città l’8 novembre 2020; un mese prima aveva bombardato la grande cattedrale di Ghazanchetsots, orgoglio della Chiesa Apostolica Armena (foto 2).
Il presidente azero ha dichiarato che “l’ulteriore perfezionamento dell’amministrazione governativa e legislativa a Šuša non soltanto servirà alla restaurazione e alla conservazione dell’eredità storico-culturale nella città, ma offrirà l’occasione per un suo sviluppo ininterrotto”, secondo i principi dell’identità azera e musulmana, “elevandola sull’arena internazionale come perla splendente della ricca cultura, dell’architettura e dell’urbanistica dell’Azerbaijan nel corso dei secoli”.
La questione dei prigionieri
Oltre alla disputa identitaria, gli armeni si sentono feriti per una questione molto scottante legata al conflitto bellico dello scorso autunno: la restituzione dei prigionieri di guerra.
La questione assume un profilo internazionale molto delicato, viste le pressioni di Usa e Russia su Baku per ottenere una soluzione, finora senza molto successo. Si tratta di adempiere ai reciproci obblighi approvati con la mediazione di Mosca, ma anche di permettere un più ampio accordo tra Russia e Azerbaijan per risistemare l’intera regione ex-sovietica del Caucaso, che permetta alla Russia di riconnettersi con l’Asia centrale per la via meridionale.
Il 6 maggio scorso a Erevan, Sergej Lavrov, ministro russo degli esteri, ha condotto trattative con il suo omologo Ara Aivazyan e il “facente funzioni” di primo ministro Nikol Pašinyan, chiedendo la firma di un memorandum sulla comprensione reciproca tra i governi dei due Stati in conflitto in materia di sicurezza biologico-sanitaria. Nel testo è previsto un ampio progetto di modernizzazione delle strutture sanitarie dell’Armenia, finanziato in buona parte (10 milioni di dollari) dagli Stati Uniti.
Gli armeni condizionano però ogni accordo ulteriore alla restituzione dei circa 200 prigionieri ancora nelle mani degli azeri (foto 3). Questi ne riconoscono poco più della metà, e per ora continuano a tenerli in ostaggio come arma di ricatto nelle trattative. Il 4 maggio il capo del contingente militare di pace russo, Rustam Muradov, ne aveva riportati tre a Erevan, per facilitare la missione di Lavrov, ma il gesto non è bastato ad ammorbidire la posizione dei rappresentanti armeni, che si attendono da Mosca una presa di posizione molto più decisa.