L’eredità della guerra (Insideover 19.02.21)
E’ una notte senza fine quella che cala sull’ Armenia il 9 novembre 2020. La notizia della dichiarazione della fine della guerra e dell’accordo di pace trilaterale firmato da Russia, Armenia e Azerbaijan entra nella case di 3 milioni di cittadini armeni attraverso un post su facebook del premier Nikol Pashinyan: la guerra del Nagorno Karabakh è finita, la guerra è persa. Sarebbe una notte di estremo cordoglio e silenziosa pena se il furore collettivo maturato per l’ avvilente sconfitta non trascendesse il dolore e conferisse alle ore che seguono il cessate il fuoco una disperazione tragica e irata.
A Yerevan, all’annuncio delle condizioni della resa, segue infatti un’esplosione di rabbia corale. Centinaia di migliaia di persone, una marea orfana di risposte e votata all’impresa del rancore, occupa le strade della capitale, il parlamento, i palazzi governativi e la casa del premier. L’accettazione della sconfitta, lontana dallo scibile della gran parte dei cittadini, e il materializzarsi, di nuovo, nella storia del popolo armeno, di quell’anatema di morte che l’ha condannato nei secoli a privazioni territoriali, deportazioni e genocidi, sconvolgono e incendiano la popolazione che manifesta e chiede, in pasto alla folla e in pegno alla storia, il premier e il suo governo.
Una notte che ancor oggi, a quasi due mesi di distanza dalla fine delle ostilità, continua a perdurare nel Paese caucasico che dalla guerra ha avuto in eredità oltre centomila sfollati, migliaia di vittime e una popolazione spaccata tra chi supporta il primo ministro e la sua decisione di non dimettersi, cercando così di preservare le traballanti impalcature democratiche che il suo esecutivo in due anni è riuscito a istituire, e chi invece lo accusa di aver tradito la nazione, di aver lasciato il Karabakh ai nemici, di aver mentito sull’andamento del conflitto, e di essere quindi il primo responsabile della morte di oltre 3000 giovani soldati.
Il 27 settembre l’Azerbaijan, con il supporto della Turchia di Erdogan, ha dato inizio a un’aggressione militare contro il Nagorno Karabakh, terra storicamente armena ma che nel 1921 è stata assegnata da Stalin all’Azerbaijan con l’obiettivo di fare del paese bagnato dal Mar Caspio un avamposto da cui esportare la rivoluzione bolscevica sia verso est che verso la Turchia. Alla fine degli anni Ottanta le richieste di indipendenza da parte di decine di migliaia di armeni sono state respinte e la convivenza tra la comunità azera e quella armena si è fatta sempre più difficile tanto che hanno incominciato a registrarsi scontri e massacri da ambo le parti che hanno portato a un inevitabile conflitto che dal ’92 al ’94 ha causato la morte di oltre 20mila persone. Solo un flebile cessate il fuoco ha fermato la guerra negli anni ’90 che si è conclusa con la vittoria finale degli armeni che hanno occupato l’intera regione e proclamato la nascita della repubblica dell’Artsakh, non riconosciuta ad oggi da nessuno Stato al mondo. Formalmente però, in base agli accordi e alle risoluzioni internazionali, il Nagorno Karabakh è sempre appartenuto all’Azerbaijan ed è questo il motivo per cui la regione è stata di nuovo il teatro di una doloroso e sanguinario conflitto, dal 27 settembre al 9 novembre 2020. E dopo 44 giorni di duri combattimenti, Baku ha conseguito la vittoria militare prendendo di nuovo il controllo di 7 distretti contesi della regione caucasica, della storica e iconica città di Shushi e di altri importanti centri del Karabakh.
E’ mattina, una leggera neve imbianca la capitale armena, oggi però non ci sono comizi o scioperi, non ci sono maggioranza ed opposizione, c’è solo il dolore assoluto per le vittime della guerra. Il governo ha proclamato tre giorni di lutto cittadino e nella piazza Hanrapetutyan Hraparak il vento smuove la bandiera armena issata a mezz’asta sopra il parlamento. Migliaia di persone marciano in silenzio sino a Yerablur, il cimitero militare di Yerevan dove, da più di un mese, quotidianamente, vengono celebrati i funerali di tutti i ragazzi caduti.
E’ una collina di sepolcri irrequieti sui pendii della quale la realtà riduce in polvere l’idea stessa di speranza: in ogni dove ci sono foto di ragazzi sorridenti che sembrano, in quei sorrisi, ricordare a loro stessi e al mondo tutto, quando e quanto erano felici e vivi. Albert, aveva diciott’anni, il suo ritratto è divenuto un’immagine iconica del conflitto e oggi il suo sorriso è inciso su una lastra di marmo ricoperta da un manto di rose bianche. Ed è lo stesso sorriso che hanno Arman, Karen, Grigor e gli oltre tremila ragazzi di 18,19,20 anni che ora giacciono in un camposanto somma di tutte le insensatezze con cui è impossibile venire a patti. Non c’è più, qui a Yerevan, il canglore della propaganda dei giorni della guerra e neppure la canea dei proclami irredentisti che strabordanti di storia semplice e vendetta immediata invitavano alla lotta ad oltranza sulle montagne del Karabakh. C’è invece Anna, un’anziana madre, che accende incensi e bacia le lettere del nome del proprio bambino. C’è poco distante un padre, un militare, che con una dolcezza inaspettata dalle pieghe dure del volto, accarezza il ritratto del figlio e osserva la foto con due occhi asciutti privi persino della consolazione di un pianto. E sono occhi vuoti, lontani, persi nel paesaggio dei propri ricordi, quelli di un uomo che statuario, solo, tra la moltitudine dei presenti, accarezza il monumento di suo fratello. Non ci sarà altro orizzonte per questi genitori e questi fratelli se non quello del passato, costretti a scontare in solitudine la propria condanna di sopravvissuti con soltanto la memoria come unico ed estremo conforto dai torti della storia e dalle ingiustizie della vita.
E le ingiustizie della vita sono ben visibili anche all’Ospedale militare di Yerevan dove oltre 200 ragazzi, rimasti gravemente feriti o mutilati durante i combattimenti ricevono cure e attenzioni. ”Qui la maggior parte dei ragazzi ha tra i 18 e i 20 anni. Sono giovani ragazzi che hanno appena iniziato la loro vita adulta e per loro il fatto di essere qui, in queste condizioni, è estremamente drammatico”, racconta la direttrice del centro, la dottoressa Lucine Poghosyan, che prosegue spiegando: ”Noi cerchiamo non solo di dare loro un aiuto medico ma anche di creare un ambiente famigliare e di dare supporto psichiatrico. In molti soffrono di disturbi psichici dovuti agli orrori che hanno vissuto e di cui sono stati vittime”. Nel reparto di fisioterapia ci sono ragazzi che hanno perso gambe e braccia, alcuni non riescono più a camminare e avere pieno controllo dei propri arti, altri ancora, a causa delle lesioni muscolari dovute alle schegge, devono reimparare a stare in equilibrio e la dottoressa Poghosyan confida: ”Una volta è stato portato qui un giovane di soli 19 anni, non aveva le braccia e neppure le gambe e aveva una terribile ferite al ventre. Lui era cosciente e noi non sapevamo come aiutarlo: una tragedia”.
Alcuni dei giovani pazienti ricoverati conservano nei tratti malinconici del volto il ricordo dei ragazzini che sono stati sino a pochi mesi fa, altri invece sembrano essere invecchiati all’improvviso in margine alla morte, e poi c’è un ragazzo, un militare di leva, ha solo 21 anni e durante gli scontri ha perso entrambe le gambe da sopra il ginocchio. Il giovane soldato non vuole ricordare i giorni della guerra e dei combattimenti, e il perchè del suo silenzio lo esterna con una lapidaria, drammatica e commovente domanda…