Armenia e Azerbaigian scambi di artiglieria sul confine meridionale (Ilmanifesto 21.07.20)
Resta tesa la situazione al confine tra Azerbaigian e Armenia dopo la ripresa degli scambi di artiglieria tra i 2 paesi a partire dalla notte del 12 luglio. Le scorse notti sono state relativamente tranquille. Secondo il ministero della difesa armeno il 20 luglio «il nemico ha violato il cessate il fuoco 9 volte, dopo aver sparato circa 137 colpi sulle posizioni armene».
I CANNONEGGIAMENTI tra i 2 fronti sarebbero avvenuti vicino al villaggio armeno di Chambarak. L’Azerbaigian sostiene di aver perso nello scontro tre militari mentre Erevan piange la morte di due ufficiali. Una situazione di stallo che preoccupa non poco. Il 18 luglio il capo del servizio stampa del ministero della difesa azero, il colonnello Vagif Dargahli, aveva avvertito che «in caso di attacco armeno sul bacino di Mingechevir, le forze armate azere potrebbero colpire la centrale nucleare armena di Metsamor», una minaccia che aveva fatto chiedere alla Russia un intervento dell’Onu.
Il 20 luglio, durante un briefing, il portavoce del segretario generale delle Nazioni unite Stephane Dujarric ha sottolineato che «il segretario generale sta seguendo con profonda preoccupazione la situazione di alta tensione tra Azerbaigian e Armenia e chiede la massima moderazione: un conflitto su vasta scala tra questi 2 paesi sarebbe un disastro» e anche il Papa domenica si è appellato ai contendenti.
Chi sicuramente teme l’allargamento del conflitto è il Cremlino. Sabato Putin ha messo sull’allerta la flotta su Caspio e sul mar Nero, ma ieri a Mosca si è tornati a parlare la lingua della trattativa: il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov ha convocato i plenipotenziari dei 2 paesi l’armeno Vardan Toganyan e l’azero Polad Bulbuloglu chiedendo «la stabilizzazione della situazione al confine armeno-azero, di intensificare gli sforzi per l’insediamento del Nagorno-Karabakh sotto gli auspici del presidente del Gruppo Minsk dell’Osce».
IN QUESTO MOMENTO la Russia è preoccupata per l’evolvere della situazione interna in Bielorussia e non intende peggiorare i rapporti con Ankara, alleato strategico dell’Azerbaigian, mentre può aver ragione di credere che i nuovi screzi siano stati provocati proprio dal suo alleato e in particolare da uno Stato maggiore che opera con sempre maggiore autonomia dal presidente Nikol Pashinyan.
Gli azeri hanno ragione di credere – non a torto probabilmente – che l’Armenia intenda ostacolare con le sue scaramucce belliche il normale funzionamento della ferrovia Baku-Tbilisi-Kars e il gasdotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, nonché il gasdotto dell’Azerbaigian nel Caucaso meridionale che convoglia il gas naturale l’Europa (Italia compresa) ovvero un polo di risorse energetiche alternative a quelle russe nella regione. Il fatto che la guerra riprenda non nel Nagorno-Karabakh ma sul confine meridionale tra i 2 paesi confermerebbe tale interpretazione. Se così fosse ci troveremmo di fronte a un ulteriore episodio dello scontro sulle rotte energetiche che rappresenta il substrato di buna parte della politica estera internazionale. Ma anche la situazione a Baku è complessa.
Le massicce proteste della notte del 14 luglio che hanno lambito persino la sede del parlamento esprimono un nazionalismo espressione del piccolo e micro business azero uscito distrutto dalla crisi del coronavirus. Sono stati questi gli strati alla testa di una mobilitazione che urlava «se alle armi, no alla quarantena» mentre la classe operaia dei bacini petroliferi resta per ora la migliore alleata del regime di Alyev.
UNA MOBILITAZIONE ultranazionalista che per Baruz Samadov – attivista del movimento civile Nida e docente universitario a Praga – è caratterizzato dalla spontaneità e dalla disperazione. «Negli ultimi anni, e in particolare dopo le ultime elezioni, la società azera è stata descritta come apolitica, atomizzata e apatica. Ma ora dopo solo 5 mesi, abbiamo assistito al rovescio della medaglia: l’unico valore che ha un potere mobilitante e il conflitto del Nagorno-Karabakh e, di conseguenza, l’esercito»afferma Baruz. Così come per Erevan, capire gli equilibri tra esercito e potere politico a Baku sarà decisivo per intuire quale corso avrà la crisi nel Caucaso.