RICONOSCERE IL TRAUMA DEL GENOCIDIO ARMENO NON SMINUISCE L’OLOCAUSTO di Sivan Gaides (Gariwo 22.04.20)
Alcuni anni fa, in quanto soldato IDF che prendeva parte a un corso di formazione sulla costruzione dell’identità ebraica, ho partecipato a un tour dello Yad Vashem. Il sito commemorativo era stato appena ristrutturato ed era pieno di visitatori, per lo più anziani. La nostra guida di quel giorno, israeliana di origine svizzera, ha iniziato chiedendo con compiacimento al gruppo: “Avete sentito parlare di altri Sho’ot (Olocausti)?”
Soddisfatta del mio diritto di nascita in quanto israeliana di origine armena, ho alzato subito la mano e ho risposto sinceramente: “La Shoah armena”. La guida mi ha risposto con uno sguardo penetrante: “E pensa che sia la stessa cosa?”. Non si aspettava una risposta e ha proseguito con il tour.
Appena uscita dall’adolescenza, essere respinta pubblicamente davanti ai miei coetanei da una figura autorevole è stato umiliante. Inutile dire che, dopo quell’infausto inizio del tour, non ho più prestato attenzione alla guida e ho vagato per il museo, da sola con i miei pensieri.
Mi ci sono voluti anni per comprendere appieno quell’episodio allo Yad Vashem. L’insistenza della guida sul fatto che nulla potesse essere paragonato alla nostra Shoah nascondeva una verità più profonda e ironica: per chi sopravvive ai traumi, gli schemi della memoria sono molto più simili di quanto lei – o io – potessimo mai capire.
Sappiamo che nessuna figura accademica o politica credibile nega l’Olocausto. D’altro canto, la maggior parte dei Paesi si sottrae a una ferma presa di posizione sul genocidio armeno, e solo pochi lo hanno classificato come genocidio. Tale discrepanza fra il primo genocidio del ventesimo secolo in Europa e il genocidio più mortale è tutt’altro che casuale.
Venerdì 24 aprile è la giornata commemorativa delle vittime del genocidio armeno e quest’anno cade nella stessa settimana del Giorno della Memoria dell’Olocausto d’Israele, lo Yom HaShoah.
Il genocidio armeno viene commemorato il giorno che segna l’inizio del genocidio. Il 24 aprile 1915, le autorità ottomane hanno arrestato oltre 200 dei principali intellettuali armeni di Costantinopoli, che sono stati poi deportati e la maggior parte degli stessi uccisa.
La comunità internazionale sceglie invece di ricordare l’Olocausto il 27 gennaio, data che ne segna la fine: la liberazione di Auschwitz da parte dell’esercito sovietico nel 1945. A Israele, il Giorno della Memoria dell’Olocausto è il 27 Nisan del calendario ebraico, che segna l’anniversario dello scoppio della rivolta del ghetto di Varsavia del 1943, incarnazione dell’eroismo e della resistenza degli ebrei di fronte alla distruzione.
Il 24 aprile arriva senza alcun messaggio di speranza o di resistenza. La scelta della data riguarda solo le vittime, la pietra angolare su cui da allora è stata costruita la memoria del genocidio armeno.
Gli armeni si sono aggrappati alla tesi delle vittime perché non avevano i mezzi per la commemorazione a disposizione degli ebrei a livello mondiale. Le organizzazioni comunali ebraiche, i singoli filantropi e i governi occidentali hanno investito enormi somme per costruire monumenti commemorativi e musei dell’Olocausto, gestire archivi, pubblicare libri e condurre ricerche.
Attraverso lo Stato d’Israele, istituito poco più di tre anni dopo la liberazione dell’ultimo dei campi di concentramento nazisti, il ricordo dell’Olocausto ha trovato un sostenitore ufficiale negli ambienti diplomatici. Mentre le potenze mondiali che sostenevano la creazione d’Israele lo facevano principalmente per promuovere i propri interessi in Medio Oriente, la loro retorica pubblica parlava in modo commuovente della necessità di rimediare ai torti storici inflitti al popolo ebraico. Generazioni di leader israeliani hanno ricordato alle proprie controparti l’obbligo di ricordare e di continuare a ricordare.
Al popolo armeno sono mancati questi strumenti. Le prove primarie del genocidio sono più scarse e meno accessibili. A differenza della Germania nazista, che registrava le informazioni in modo metodico e rigoroso, l’indebolimento dell’Impero Ottomano funzionava a malapena e non concentrava i documenti in archivi centralizzati. Non c’è stata una conferenza ottomana di Wannsee in cui il genocidio armeno sia stato meticolosamente pianificato.
Le autorità turche hanno in gran parte nascosto il restante materiale d’archivio alla vista pubblica, e lo Stato turco non si è mai assunto la responsabilità del genocidio – a differenza della Germania, per la quale l’assunzione della responsabilità dell’Olocausto era una condizione fondamentale per l’accettazione della stessa nella famiglia delle nazioni.
I sopravvissuti hanno conservato ampie prove del genocidio, fra cui fotografie, video e testimonianze scritte e orali. Ma per gli armeni emigrati nel mondo occidentale, ci è voluto del tempo per accumulare un capitale sociale e finanziario sufficiente a promuovere la memoria pubblica. Gli armeni rimasti in Unione Sovietica hanno dovuto affrontare una decennale campagna di russificazione volta a offuscare le particolari identità e storie delle minoranze nazionali.
Solo dopo che la Repubblica d’Armenia ha dichiarato l’indipendenza nel 1991, più di 75 anni dopo il genocidio, un governo armeno ha potuto agire come custode della memoria del genocidio. Ma l’Armenia post-sovietica era un Paese povero, incentrato sulla difficile transizione verso un’economia di libero mercato e preoccupato dalla prolungata guerra del Nagorno-Karabakh con il vicino Azerbaigian. Solo a partire dagli anni 2000 lo Stato armeno si è stabilizzato e ha iniziato a dedicare risorse significative alle campagne di pubbliche relazioni sulla commemorazione del genocidio.
Nella Diaspora, la personalità mediatica armeno-americana Kim Kardashian West ha pubblicizzatole visite al Museo del Genocidio Armeno di Yerevan e ha elogiato il riconoscimento del genocidio da parte del Congresso degli Stati Uniti di fronte ai suoi milioni di follower. La mobilitazione di Kardashian West sulla questione è particolarmente degna di nota nel contesto dell’Olocausto, cui negli anni non è mancato il sostegno di molte celebrità.
Il genocidio armeno e l’Olocausto non sono stati perpetrati indipendentemente l’uno dall’altro. Si dice che Hitler abbia detto ai comandanti della Wehrmacht, alla vigilia dell’invasione tedesca della Polonia nel 1939, di non preoccuparsi delle conseguenze dell’uccisione di civili innocenti, poiché “Chi, dopo tutto, parla oggi dell’annientamento degli armeni?”
Tra coloro che hanno parlato, sia con i fatti che con le parole, figurano le undici persone e famiglie armene riconosciute dallo Yad Vashem come Giusti tra le Nazioni – per lo più sopravvissuti al genocidio, che hanno ricostruito le proprie case in tutta Europa e hanno riconosciuto il proprio obbligo di aiutare gli indifesi.
Io discendo da sopravvissuti all’Olocausto da parte di mio padre e da sopravvissuti al genocidio armeno da parte di mia madre. Il trauma transgenerazionale e il profondo senso di sradicamento sono altrettanto forti in entrambi i casi. Quando una persona è colpita da un trauma, spesso può aiutarla ascoltare persone con esperienze simili e rivendicare l’esclusività del trauma non aiuta nessuno.
Eppure, mentre l’educazione all’Olocausto è considerata il punto di riferimento per un’educazione storica responsabile in tutto il mondo sviluppato, i discendenti dei sopravvissuti al genocidio armeno devono ancora lottare perché il genocidio sia riconosciuto come tale. Come ho scoperto a Yad Vashem, anche gli educatori dell’Olocausto, che fanno un lavoro eccezionale nello spiegare un trauma, devono essere formati per comprendere ed empatizzare con altri traumi.
Data la quantità di informazioni facilmente reperibili sul genocidio che esiste nell’era degli smartphone, commemorare le sue vittime non dovrebbe più essere responsabilità esclusiva dei sopravvissuti e dei loro discendenti, vincolati come sono da una serie di fattori geopolitici, economici e circostanziali.
Sia visitando la Biblioteca Gulbenkiannella Città Vecchia di Gerusalemme, che ospita uno dei più grandi depositi di materiale sul genocidio al mondo, sia incoraggiando i consigli scolastici locali a insegnare la materia nei programmi di storia, le persone hanno molto potere per cambiare la narrazione attraverso iniziative che partono dal basso.
Il 24 aprile non deve solo raccontare una storia di vittime, ma può anche testimoniare la sopravvivenza e la rigenerazione culturale, ed essere parte di una storia universale che, per gli israeliani, dovrebbe essere particolarmente eloquente.
Sivan Gaides è nata in Armenia da padre ebreo e madre armena, e ha fatto l’aliyah con la sua famiglia nel 1990. Ha conseguito una laurea e un master in Scienze Politiche presso l’Università Ebraica di Gerusalemme e si occupa di educazione ebraica da vent’anni, lavorando anche come emissaria dell’Agenzia Ebraica in Germania e in India. Vive a Tel Aviv.
Traduzione di Valentina Gianoli dell’articolo pubblicato sul quotidiano Haaretz