Lo sterminio degli armeni – Prima parte – (Laluce.news 24.10.19)
Pubblicheremo la storia delle delle persecuzioni contro gli armeni culminate nel genocidio del 1915-1918. Questa è la prima di dieci parti.
La Fine del XIX Secolo
La serie di persecuzioni scatenate contro le popolazioni armene a partire dal penultimo decennio del XIX secolo, culminate nel genocidio del 1915-1918, sono riconducibili a cause di assoluta immanenza e ben spiegabili in termini puramente materialisti, attingendo alla documentazione disponibile, alla geopolitica ed alla sociologia. Le cause dello sterminio sono una costellazione riconducibile pressoché in blocco al travolgente impatto delle strutture sociali del tempo con la modernità, piuttosto che ad una metafisica e sostanzialmente risibile “malvagità islamica” buona soltanto per rafforzare in un’opinione pubblica decerebrata e pornofila la solita foia securitaria in gran voga oggidì.
A partire dall’inizio dell’era moderna in Armenia – termine che storicamente indica un territorio almeno dieci volte più ampio di quello attualmente sotto la sovranità di Erevan – accanto ad una maggioranza di contadini si era andata formando una classe borghese abbastanza numerosa ed influente, i cui usi, la cui cultura ed i cui consumi erano profondamente influenzati dai corrispettivi europei; le testimonianze documentali della situazione sono imponenti e confermano l’alto livello di vita di professionisti, commercianti ed artigiani concentrati in comunità ad Istanbul, a Izmir ed in altri grossi centri, nonché sparpagliati in tutta l’Anatolia. I musei delle comunità armene ancora esistenti, come quella di Esfahan nella Repubblica Islamica dell’Iran o quella siriana di Aleppo, mostrano la raffinatezza anche materiale di cui la borghesia armena riusciva a circondarsi. A questo fenomeno si univano i legami culturali con gli Stati europei, primi tra tutti la Francia e la Russia, nelle cui università ricevevano formazione anche parecchi giovani armeni.
L’élite cui abbiamo accennato viveva gomito a gomito con curdi, turchi e molte altre popolazioni in un mondo che a tutti i livelli dava per scontate due cose che oggi inimmaginabili: la normalità della differenza, e l’idea che essa differenza non implicasse una particolare superiorità o inferiorità. Nonostante la scarsità di beni materiali e la sua influenza sulla qualità della vita, nel territorio imperiale – come in tutti i territori imperiali – coesistevano comunità dai costumi diversissimi. Le basi pratiche e ideologiche per il genocidio vanno ricercate non in un “islam” buono per gli articoli dei giornalini “d’Occidente”, ma nell’irruzione travolgente della modernità e delle idee nazionaliste. Lungi dal costituire un monolito “islamico”, l’Impero ottomano aveva concesso ad esempio fino alla metà del XIX secolo ai propri sudditi non musulmani di prestare servizio come dragomanni (interpreti, guide, segretari) per una potenza straniera; alla carica si accompagnavano esenzioni fiscali ed uno statuto giuridico particolare, che consentiva ai dragomanni di farsi proteggere dallo stato per il quale operavano.
Questa polverizzazione di diritti e privilegi venne meno durante la tanzimat, la “riorganizzazione” imperiale tentata negli stessi anni per tentare di metabolizzare gli effetti e l’influenza della modernità, che tra le altre cose dotò di rappresentanze e di assemblee proprie i millet, le nazionalità comprese nell’impero.
L’inizio del precipitare delle sorti armene va fatto risalire almeno al 1878, anno a partire dal quale divenne sempre più evidente che la supremazia ottomana in Europa orientale aveva i giorni contati. Il trattato di Santo Stefano ed il seguente congresso di Berlino (congresso il cui scopo sostanziale era quello di limitare l’influenza russa nella regione) avevano imposto all’impero perdite territoriali molto consistenti, vissuti dai militari come una deminutio capitis insanabile. Da sempre puntello del potere e forza sociale tra le più influenti, la casta militare godeva nell’impero, ed ha continuato a godere nella Turchia contemporanea, di un prestigio e di un’autorevolezza molto alti.
Con gli ultimi anni del XIX secolo va facendosi strada ad Istanbul – e presso essa classe militare – la convinzione che gli altri Stati europei (che le idee nazionaliste le hanno prima prodotte e poi fatte completamente proprie, improntando ad esse la propria forma di Stato e la propria politica interna ed estera) abbiano in agenda lo smembramento e l’occupazione dell’impero alla prima occasione favorevole; la politica di Abdulhamid II, al trono dal 1876, si basa sull’autoritarismo e sulla burocratizzazione: gli aspetti peggiori del nazionalismo vengono fatti propri dalla burocrazia, con l’abbandono dell’idea di una “cittadinanza ottomana” ed il recupero strumentale dell’appartenenza religiosa per legare all’etnia turca gli altri popoli musulmani non turchi, la cui aggressività viene diretta contro i cristiani. Dal 1891 i curdi sono irreggimentati in reparti semiregolari, su modello di quelli cosacchi: la cavalleria hamidiana è destinata alla guardia personale del sultano ed alla sorveglianza della frontiera con l’Impero russo e sarà tra le forze militari protagoniste dei successivi eventi.
Nel nuovo stato di cose, nel nuovo ordinamento giuridico che paga all’ideologia nazionalista tributi via via più pesanti e dagli effetti sempre più articolati, i non turchi, i non musulmani non soltanto diventano rapidamente “altra cosa” rispetto ai gruppi maggioritari, ma prendono essi stessi coscienza nazionale. In territorio ottomano nascono società segrete armene su modello carbonaro; a Van, nel 1885 lo Armenakan; a Ginevra il Hntchack e a Tbilisi il Dashnaksutiun. Rifacendosi al trattato di Berlino ed agendo nelle zone di una frontiera ondivaga, le formazioni armene tentano di assicurare le funzioni statali in cui Istanbul non riesce più a mostrarsi efficiente, facendo crescere tra gli armeni la percezione della propria appartenenza nazionale e la prospettiva dell’autogoverno.
La minoranza radicale è protagonista degli avvenimenti: nel 1890 un processo pubblico ad Istanbul è occasione per scaramucce e per proclami contro il Sultano. Pochi mesi dopo una colonna di appartenenti al Dashnaksutiun provoca un incidente di frontiera e la repressione arriva immediata, con l’arresto di religiosi di spicco e la sospensione dell’assemblea del millet armeno. Gli attivisti armeni rispondono con attentati. Nell’estate del 1894, nella zona di Sasun, tre villaggi rifiutano di pagare una seconda volta imposte già pagate ad esattori curdi: la cavalleria hamidiana rastrella la zona facendo migliaia di morti e la notizia arriva in Europa occidentale senza che la propaganda imperiale riesca a controbattere in modo efficace: la sproporzione tra atti di guerriglia o di insubordinazione e successiva rappresaglia è intollerabile agli occhi di chiunque. Le violenze dei tre anni successivi, note grazie a una nutrita serie di rapporti consolari, causarono duecentomila morti e si accompagnarono alla distruzione di chiese e villaggi.
Nel 1896 un commando armeno compì uno spettacolare assalto alla Banca ottomana di Istanbul, centro degli interessi europei nell’Impero: l’atto fu seguito da un’altra ondata di repressione e l’opinione pubblica europea si divise ancora una volta sull’opportunità di azioni cui corrispondeva immancabilmente una reazione sproporzionata, mentre le esigenze di una politica realista imponevano a Francia e Russia di barcamenarsi tra le “verità” della propaganda imperiale e quella delle note consolari.
Nonostante l’interpretazione dei massacri hamidiani di quegli anni sia ancora oggetto di dibattito, la volontà politica che li muoveva, ossia il restauro del vecchio ordine, ne fa qualcosa di non genocidario; i massacri costituiscono una sostanziale ammissione di impotenza da parte della Sublime Porta ad affrontare gli stravolgimenti sociali che la modernità comportava: non l’eliminazione degli armeni come popolo ma il restauro del sistema dei millet e l’eliminazione dell’attivismo radicale erano gli obiettivi di Abdulhamid, che verrà poi sconfitto dalle forze da lui stesso messe in moto.